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Franco Cosmar

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DUE STORIE, UNA SOLA VITA

storia di un partigiano friulano, dai monti a Mauthausen

Nel 1935, insieme ai miei fratelli, lasciammo il paese in cui eravamo nati e raggiungemmo mio padre e il mio fratello più anziano che erano emigrati in Francia per ragioni politiche. Eravamo sette fratelli viventi su quattordici nati, e al paese restò soltanto mia sorella Ida, sposata con un Carabiniere. In Francia io e i miei fratelli abbiamo frequentato la scuola francese, mentre i più grandi avevano trovato lavoro. Stavamo bene.
Poi, nel 1939, venne la guerra, con l'occupazione tedesca. Nel 1938 mio fratello Eligio si era arruolato come volontario ed era andato a combattere in Algeria con l'esercito francese; era un simpatizzante del generale De Gaulle.
Nell'aprile del 1943 mio padre, preso dalla nostalgia per la sua terra, decise di ritornare in Italia, e noi, che pure eravamo tutti contrari, non riuscimmo a fargli cambiare idea, nonostante che in Francia stessimo bene perché i tedeschi non ci davano fastidio. I maqui (partigiani francesi) combattevano, e le rappresaglie erano frequenti, come pure le deportazioni, ma a noi non fu mai fatto del male, forse perché eravamo italiani, e quindi alleati.
Restammo molto delusi al nostro ritorno in Italia, nel nostro paese natale; in Friuli regnava la miseria, stavano bene solo i piccoli contadini, mentre per gli operai era molto difficile trovare un lavoro fisso. Mio padre mi trovò un'occupazione a tempo pieno presso una famiglia di mezzadri ai casali di Orzano, e così mi restava ben poco tempo per andare a casa, che pure era solo a due chilometri da lì. Ero impegnato perfino la domenica. Anche mio padre trovò lavoro come bracciante, mentre tutti gli altri fratelli erano senza lavoro. Non perdonerò mai mio padre di averci trascinati in Italia. Oltre a tutto questo, c'era pure il problema che non sapevo parlare friulano né l'italiano, così i ragazzi della mia età mi prendevano in giro, facendomi sentire una forte nostalgia della Francia. Passarono i mesi: mia sorella, la più vecchia, abitava accanto a noi, suo marito -il carabiniere- era sempre sotto le armi, e di tanto in tanto veniva a casa in permesso.
L'otto settembre ci fu la disfatta del governo fascista: con l'esercito allo sbando tutti i soldati fuggirono dalle caserme e, per sfuggire ai tedeschi e ai fascisti che davano loro la caccia, si rifugiarono dalle famiglie a chiedere abiti civili, abbandonando la divisa militare. Quando un soldato veniva preso, era qualificato come disertore, arrestato e poi mandato in Germania; addirittura, molti ufficiali chiudevano i soldati nelle caserme per poi consegnarli ai Tedeschi. Nelle campagne e nei prati si trovavano disseminate le divise e le armi abbandonate.
In ogni paese era stato organizzato un posto di blocco, e in più venivano rastrellate le campagne per cercare le armi abbandonate lasciate dai militari in fuga. Il nostro paese fu occupato dai Tedeschi, che imposero il coprifuoco. Villa Tandoia, una villa che apparteneva a un gerarca fascista, fu utilizzata come comando. Nella casa si trovavano anche dei depositi di materiale militare.
Venivamo controllati sia in entrata che in uscita. Una notte, una decina di ragazzi del paese furono sorpresi dopo il coprifuoco e furono arrestati e portati al comando. I genitori dei ragazzi vennero a chiamare mia sorella Alda, che conosceva il tedesco, chiedendole di andare al comando e cercare di chiedere il rilascio dei loro figli. I giovani erano già stati destinati ad essere spediti via, ma mia sorella riuscì, con molta fatica, a farli rilasciare, e non volle nessun compenso per il suo intervento. Il rilascio però fu condizionato al fatto che se uno dei ragazzi fosse stato arrestato un'altra volta non ci sarebbe stata più alcuna attenuante. Dopo molti mesi d'occupazione, il comando decise di lasciare il paese, con l'intenzione di requisire tutti i cavalli e i carri agricoli. Anche in quell'occasione Alda intervenne e riuscì a far cambiare idea al comando tedesco.
Dato che non riusciva a trovare un lavoro e si sentiva molto demoralizzata, mia sorella Alda decise di andare a lavorare in Germania, e l'altra sorella Ida, che aveva ventisette anni e cinque figli, decise di andare con lei, lasciando i suoi figli a nostra madre, senza nemmeno avvertire suo marito di quest'improvvisa decisione. I bambini furono messi in collegio, mia madre cercò di dissuaderla, di farla ragionare, di ricordarle la responsabilità che aveva nei confronti dei bambini e della famiglia, ma lei partì ugualmente.
In Friuli si susseguirono varie occupazioni: i Tedeschi, la Repubblica di Salò, i Cosacchi, i Russi bianchi, la Decima MAS al comando di Osvaldo Valente. In montagna cominciarono a combattere i partigiani.
All'inizio non erano che pochi gruppi isolati che non impensierivano i Tedeschi. C'erano però anche i partigiani jugoslavi che scendevano dalle montagne per uccidere i Tedeschi e questi, per rappresaglia e per dare un esempio, impiccarono a Premariacco alcuni prigionieri prelevati dal carcere di Udine, e invitarono la popolazione ad assistere. A questa seguirono altre impiccagioni in altri paesi, che crearono il terrore nella popolazione. Molti ragazzi, specialmente quelli fuggiti l'otto settembre o quelli che non volevano andare a lavorare con la TOT, la notte andavano a dormire fuori casa, nei campi e nei fossi, per paura dei rastrellamenti. I Tedeschi avevano dato l'ordine che ogni famiglia dovesse indicare, accanto alla porta, il numero dei componenti, e i loro nomi. Durante i controlli, se un componente mancava, veniva ritenuto responsabile il capo famiglia, che doveva dire dove si trovasse.
Era l'inizio di luglio del 1944 quando un ragazzo del paese che avevo conosciuto da poco mi convinse ad andare volontario nei partigiani. Io sulle prime non volevo andare, perché avevo un padre molto severo e non volevo abbandonare la famiglia dove lavoravo proprio nel momento in cui più avevano bisogno del mio aiuto. Una domenica mattina, dopo essermi occupato del bestiame ed essermi lavato, lo trovai che mi aspettava fuori dal portone. Senza dare nell'occhio, uscii, e iniziammo a camminare, attraversando vari paesi e incrociando diverse pattuglie militari. Gironzolammo tutto il giorno nelle zone in cui sapevamo che i partigiani operavano, ma senza riuscire a incontrarli. Avevamo paura di chiedere alla gente del luogo, si stava facendo notte ed eravamo piuttosto demoralizzati. Già ci stavamo avviando sulla via del ritorno, quando vedemmo sbucare una pattuglia di partigiani garibaldini: con grande gioia andammo loro incontro, comunicando loro la nostra voglia di arruolarci nella formazione. Ci chiesero se avessimo visto soldati tedeschi nei paraggi. Il gruppo era composto da una decina di uomini ben armati, e alla nostra richiesta di arruolarci il caposquadra ci chiese quanti anni avessimo. Io mentii, dicendo che ne avevo diciotto, mentre ne avevo appena diciassette. Inizialmente fece un sacco di storie, e disse che non ci voleva, ma dietro le nostre insistenze alla fine acconsentì. Seguimmo così il gruppo in fila indiana nel più assoluto silenzio in una lunga camminata per sentieri di montagna. Era ormai notte fonda, e dopo varie ore di cammino arrivammo a Valle, il paese dove c'era il comando partigiano. Il caposquadra ci portò dal comandante che gli chiese chi fossimo e perché ci avesse portati lassù. Il caposquadra rispose spiegando la nostra voglia di entrare a far parte dei gruppi partigiani, ma il comandante non ne fu convinto. Ci diede una settimana di tempo per pensarci su e per decidere se restare oppure no, e ordinò che ci fosse dato qualcosa da mangiare e un posto per dormire. La settimana passò senza che ce ne accorgessimo, mentre la compagnia di quelle persone mi piaceva sempre di più. E venne così il momento di comunicare al comandante la nostra decisione di restare, ci toccò una paternale e il discorso che probabilmente veniva fatto a tutti i nuovi: "Vi sarà data un'arma e vi sarà assegnato un istruttore che v'insegnerà l'istruzione militare. Se un giorno cambierete idea, e fuggirete o abbandonerete il gruppo, verrete perseguitati e passati per le armi." In quel momento mi trovai a pensare ai miei padroni, e alla mia famiglia, che non sapeva dove mi trovassi. Erano tempi difficili, in cui si poteva facilmente venire arrestati o uccisi se trovati in giro dopo il coprifuoco dato che -come dicevano i Tedeschi- quella era una zona infestata da banditi (era così che loro chiamavano i partigiani). Ognuno di noi doveva scegliere un nome di battaglia e io decisi per Verio. Ci consegnarono un tesserino che portava la scritta "Corpo Volontario della Libertà", il nome di battaglia e la firma del comandante. Da allora sarebbe toccato anche a noi montare di guardia la notte, e andare di pattuglia.
Quando ci toccò il primo turno di guardia, ci accordammo così da avere il cambio dopo due, ma al momento del cambio il mio amico era scomparso: c'era solo il suo fucile. Fu dato l'allarme, e andammo a cercarlo, ma invano. Aveva disertato. Il comandante pensava che io fossi a conoscenza delle sue intenzioni, mentre invece non era così. Mi chiese anche perché fosse rimasto, se non voleva, dopotutto avevamo avuto una settimana per pensarci. La diserzione era una cosa molto grave, perché la nostra sicurezza dipendeva da lui. Mentre facevo il mio turno di guardia mi domandai come mai non si fosse confidato con me, e perché mai avesse fatto una cosa come questa. La mattina fui convocato al comando e mi fu presentato un caposquadra di nome Andrea. Saremmo dovuti andare nottetempo a Remanzacco a prelevare il disertore, e io avrei dovuto indicargli dove abitava, per riportarlo su, a qualsiasi costo. Il cuore mi batté forte, perché il mio paese, Orzano, distava appena tre chilometri da Remanzacco, e il pensiero di scendere giù e passare di notte in mezzo ai Tedeschi e ai Cosacchi mi fece venir male. Maledissi quel disgraziato: e se anche lo avessimo trovato e ucciso, chi poteva mai assicurarci che non avesse già parlato, nel frattempo, mettendo in pericolo tutto il gruppo? Il pericolo era molto grave, e tutti gli uomini erano in stato d'allarme.
Venne la notte. Andrea ed io partimmo, dopo che il comandante ci ebbe raccomandato di evitare le strade e tutti i posti di blocco conosciuti. Andrea era armato di pistola, io invece non avevo nulla. Cominciammo così la nostra avventura, scendemmo dalla montagna nel massimo silenzio, io dietro a lui. Arrivati a Faedis, trovammo che il paese era occupato, e io ebbi una paura folle di essere individuato da qualche nemico. Con i nervi tesi al massimo, continuai a seguirlo col fiatone, in una notte serena, con la luna e le stelle sopra di noi che brillavano ignare di tutto quanto. Andrea conosceva a menadito tutti i sentieri, i guadi, i torrenti in secca. Arrivati nei pressi di Remanzacco, si fermò per studiare la situazione: la zona era molto pericolosa, pochi giorni prima vi si erano svolti combattimenti con i partigiani che avevano teso un'imboscata ad un convoglio militare sulla strada statale tra Udine e Cividale. Quando fu sicuro che tutto fosse tranquillo, mi fece cenno di seguirlo di corsa ed attraversare la strada, poi seguimmo il letto del torrente Malina fino alle prime case di Orzano. Ci fermammo a pochi metri da Villa Tandoia, dove c'era il comando tedesco, nascosti in mezzo ai filari di viti, per vedere se tutto fosse tranquillo. Si sentivano solo i grilli e gli usignoli. Il casolare del mio amico distava pochi metri da lì, i cani ci sentirono ed abbaiarono, qualche luce si accese e dietro alle finestre riuscimmo a vedere qualche curioso. Bussammo e ci fu aperto. Chiedemmo dove fosse il ragazzo che cercavamo, ma nessuno l'aveva visto da quando eravamo scappati in montagna. Io mi tenevo in disparte, nel buio, cercando di non farmi riconoscere, perché nello stesso cortile abitava anche una cugina di mio padre. Dicevano che forse si era rifugiato da qualche parente: di certo lui sapeva cosa lo aspettava. Quando capii che non l'avremmo trovato, mi sentii più felice: mi sarebbe molto dispiaciuto se l'avessimo preso per riportarlo su al gruppo partigiano e assistere alla sua esecuzione, avrei avuto rimorsi senza fine. Per non parlare poi della difficoltà di tornare indietro con un prigioniero con la mani legate, e per giunta imbavagliato. Dopo esserci convinti che non c'era, riprendemmo il nostro cammino, nel più assoluto silenzio. Attraversammo il paese: nella piazza si sentiva solo il rumore dell'acqua nella fontana. Arrivai al cancello di casa mia, e non sapevo se entrare oppure no, per salutare la mia famiglia e dirgli che non stessero in pensiero per me. Di certo, se fossi entrato mio padre avrebbe cercato di convincermi a restare: avevo saputo che era andato in giro per tutti i comandi tedeschi a chiedere se mi avessero arrestato. Alla fine, decisi di non entrare, proseguimmo fino a Remanzacco. Andrea mi portò fino a casa sua, e andò a svegliare i suoi. La casa distava pochi metri dalla strada principale. Dato che avevamo molta fame, ci portarono qualcosa da mangiare, poi parlarono della situazione del paese, se ci fossero i Tedeschi e dove fossero i posti di blocco, e gli diedero consigli sulla strada da percorrere per non essere visti. In casa la luce era accesa, ma dall'esterno non si vedeva nulla perché erano state tirate tende molto scure che non lasciavano trasparire neanche un filo di luce. Poi ci riposammo un po' nel fienile, e prima dell'alba riprendemmo il cammino attraverso la campagna e i guadi. Il sole stava sorgendo quando arrivammo a Faedis, e di lì salimmo su, verso la montagna, sempre attenti a non incontrare qualche pattuglia nemica, attraversando boschi e lungo i sentieri che Andrea conosceva. Arrivati a destinazione; tirai un sospiro di sollievo. Andrea, che era un caposquadra, andò a riferire tutto al comando.
Ogni giorno c'era qualche nuovo volontario che si univa a noi, e gli Inglesi cominciavano a farci qualche lancio di armi automatiche e munizioni. I nostri istruttori erano molto esperti di armi e anche nell'addestramento militare, e la disciplina era ferrea.
Una sera la mia squadra ricevette l'ordine di partire per una missione, la cui destinazione era nota solo al caposquadra. Partimmo in dieci, armati di due mitraglie, una inglese mai usata e una Breda, e di fucili, carabine e mitra. Scendemmo giù verso Torreano e poi risalimmo per un pendio talmente ripido da doverci tenere ai ciuffi d'erba per non cadere. Nel buio smarrimmo anche il sentiero, e fu una faticaccia. Stava facendo giorno quando ci fermammo vicino ad una chiesetta, in uno spiazzo da cui si dominava tutta la pianura sottostante. Ci fu dato l'ordine di piazzare le mitraglie per un fuoco incrociato e quando tutto fu a posto, ci dissero di aspettare. Le ore passarono e il sole cominciava a splendere. Mi chiesi cosa stessimo facendo lì, di sotto si vedeva la gente andare al lavoro. Ad un certo punto si cominciò a sentire rumore di motori, e di lì a poco comparve un primo camion aperto pieno di soldati, seguito da un'intera autocolonna. Quando tutti i veicoli furono visibili, una delle nostre mitraglie cominciò a far fuoco, insieme ai nostri fucili. Vedevamo i militari saltare giù dal camion, e dal pullman che seguiva, per cercare un riparo. Colti di sorpresa, non pensarono subito a rispondere al fuoco, e la colonna si bloccò. Da dietro si fecero avanti delle autoblindo e dei carri armati, che cominciarono a sparare. A qual punto non ci restava che ritirarci, ma per ritirarci dovevamo percorrere un tratto di terreno in salita e scoperto e sotto il tiro dei cannoni e delle mitraglie. Ci riuscimmo, senza nessuna perdita, ci fermammo un attimo dietro la chiesetta e poi scendemmo di nuovo: eravamo già lontani, e sentivamo ancora i Tedeschi sparare. Quando, al tramonto, arrivammo al comando io avevo i nervi a pezzi: era stato il mio battesimo del fuoco, e quella notte non dormii, continuai a rivedere sempre la scena della battaglia. Ci furono poi delle noie con il comando, perché avevamo consumato troppe munizioni per mitraglia. Il caposquadra venne indagato, anche se poi gli informatori riferirono che il danno inflitto era stato molto forte. Il battaglione Manin si spostò verso la pianura, a Torreano, nei pressi di una cava di sassi che venivano trasportati con una teleferica al cementificio di Cividale. I nostri interruppero la teleferica, perché il cemento veniva utilizzato dai Tedeschi per costruire fortificazioni lungo le nostre coste. A Torreano uscivamo molto spesso in pattuglia, disponevamo anche di alcune auto requisite o prese al nemico. Di tanto in tanto andavamo a stuzzicare i Tedeschi nei dintorni di Cividale e nelle caserme. Ci appostavamo e aspettavamo che si presentassero per l'appello, sul piazzale, per sparargli e portare un po' di scompiglio.
In quel periodo stavo facendo il corso di mitragliere, e mi piaceva molto: le mitraglie inglesi erano leggere e maneggevoli e non si inceppavano mai. Andavamo a esercitarci al tiro nella cava di Canalutto. Ero molto soddisfatto dei miei progressi, così feci anche il corso con l'anticarro Piat inglese. Disponevamo anche di altre mitraglie più pesanti, come la Breda.
Dopo alcuni giorni il battaglione si trasferì a Prossenico: non eravamo più tanto pochi, come quando ero arrivato io, ma ci stavamo trasformando in un vero e proprio esercito, ben armato e addestrato, con armamenti moderni. Avevamo una squadra di guastatori equipaggiata di mitra Sten con il silenziatore, e una squadra mortaisti, costituita tutta da ex-militari venuti con noi. Eravamo tre brigate, la mia era la Picelli, con i battaglioni Manin, Verrucchi, Pisacane. Poi c'era la Brigata Buozzi, con i battaglioni Manara, Miniussi, Fronte della Gioventù-Val Natisone, e infine la Gramsci con i battaglioni Gregorati, Mameli e Pustetto. La nostra divisione era la Val Natisone della Garibaldi, e l'altra era la divisione Osoppo, che aveva il comando a Porzùs. Era lassù che venivano fatti i lanci dagli aerei: accendevamo i fuochi per segnalare la zona, e avevamo addirittura degli ufficiali inglesi che si mettevano in contatto con i piloti. La nostra divisione Garibaldi Val Natisone poteva contare su una forza effettiva di oltre duemila e ottocento uomini, la Brigata Osoppo su oltre duemila uomini.
Nella Venezia Giulia i Tedeschi avevano trentanovemila uomini, compresi i cosacchi, la RSI (Repubblica Sociale Italiana), la decima MAS e i Bellagardisti jugoslavi. Questi ultimi erano i più terribili, e se si cadeva loro prigionieri era meglio prendere il coraggio a quattro mani e spararsi subito un colpo alla testa, perché si sarebbe comunque stati terribilmente torturati e uccisi. A me piaceva andare in pattuglia verso la pianura, anche se era rischioso. Partivamo in fila indiana nel più assoluto silenzio: quasi tutti portavamo anfibi inglesi con suole di gomma, molto silenziosi. Quando si intravedevano le prime case delle borgate ci appostavamo con la mitraglia, mentre un gruppo scendeva a controllare se c'erano nemici. Spesso ci capitava di scontrarci con qualche pattuglia di cosacchi che andavano a razziare i paesi con carri trainati da cavalli.
Tutti i giorni i Tedeschi facevano alzare in ricognizione un aereo, dal quale venivano lanciati manifestini sui quali era scritto che a chi avrebbe lasciato la lotta partigiana non sarebbe stato fatto alcun male e che ci sarebbe stata la grazia. Nonostante questo, però, gli aerei venivano sempre accolti a colpi di mitraglia, e una volta riuscimmo anche a colpirne uno. Per rappresaglia, i Tedeschi ci attaccarono prima con i mortai, poi con altre armi, ma ebbero pane per i loro denti: vennero sempre respinti. Noi ci spostavamo di continuo ma non lasciavamo mai la zona indifesa, perché altri battaglioni prendevano il nostro posto. Questi erano gli ordini dei superiori.
Quando fummo trasferiti a Taipana, alla nostra squadra toccò di appostarsi nel bosco: di giorno riuscivamo a vedere bene, ma la notte era davvero difficile. I rumori erano molti, e non sapevamo mai se fossero volpi, cinghiali o nemici. Quando toccava a me fare la guardia, io speravo sempre che il turno trascorresse in fretta, perché a forza di scrutare il buio pesto che mi circondava nel bosco provavo una forte senso di paura.
Da Taipana ci spostammo a Monteprato. Il nostro battaglione Manin prese posizione sopra Torlano, in un posto da cui si dominava tutto il paese dall'alto, quasi in mezzo alle rocce. Lì non c'era bisogno di fare trincee per piazzare le mitraglie, la roccia offriva moltissime trincee naturali. Ci mandavano di notte a fare queste operazioni, come sempre nel massimo silenzio, perché i cosacchi che occupavano il paese sottostante non ci vedessero e non ci sentissero. Ad ognuno di noi venne assegnata una posizione: la roccia era calda, eravamo a metà agosto. Al sorgere del sole, dalle nostre posizioni potevamo vedere i cosacchi muoversi per il paese senza sospettare minimamente di essere sotto il nostro tiro. Avevano piazzato una mitraglia sul campanile, e potevamo vederla benissimo. Le nostre, invece, erano tutte ben camuffate con rami e foglie. Il silenzio era assoluto, aspettavamo tutti l'ordine di sparare, e l'attesa fu lunga. Quando finalmente l'ordine arrivò, sotto ci fu un fuggifuggi generale, i cavalli impazzirono e cominciò a sparare con insistenza la mitraglia che avevamo visto sul campanile. Avevo molta sete, ma non c'era modo di avere dell'acqua senza essere individuati e col rischio di essere colpiti: solo alla sera arrivavano i rifornimenti. L'operazione durò vari giorni, i cosacchi ci attaccavano sempre nel pomeriggio, e non potevano avanzare senza essere individuati. I loro feriti e morti cadevano giù dal pendio roccioso. Ad un certo punto cominciarono a scarseggiare le munizioni, e cominciammo a chiederci se non fosse il caso di ritirarsi. I cittadini di Monteprato vennero a saperlo, si radunarono e decisero di aiutarci, perché se i cosacchi ci avessero sconfitti il paese sarebbe stato invaso in poche ore e così ci fecero consegnare armi e munizioni in una quantità tale che non sapevamo neanche più dove metterle. Ci dissero che l'otto settembre i nostri soldati avevano abbandonato tutto l'equipaggiamento, e che la popolazione aveva raccolto e nascosto tutto quanto. I cosacchi, vedendo che non riuscivano a scovarsi, chiesero rinforzi e arrivarono così i Tedeschi con i carri armati. Aprirono il fuoco con mitraglie, cannoni e mortai. Dopo un'accanita lotta, vedendo che non riuscivano a sfondare, cominciarono a vendicarsi sui civili, incendiando case, uccidendo donne, uomini e bambini lanciandoli tra le fiamme, mentre noi, dall'alto, eravamo costretti ad assistere al massacro. A quel punto decidemmo di scendere, coperti dalle nostre postazioni. I Tedeschi si ritirarono sotto il nostro fuoco insistente. Andammo a vedere nei casolari in fiamme, e lo spettacolo fu allucinante: corpi fumanti e donne sotto i tavoli, uccise a colpi di mitra. Qualcuno dei nostri andò a cercare il prete del paese e qualche volontario, pregandoli di dare una degna sepoltura a quelle povere vittime innocenti, sulle quali i Tedeschi avevano scaricato tutta la loro rabbia. La gente del paese ci venne incontro offrendoci del vino: erano stanchi dell'occupazione cosacca.
Le forze partigiane scesero giù dalle montagne e riconquistarono la pianura, mettendo in fuga il nemico, che si era ritirato a Nimis. Ma non c'era da illudersi. Ci accampammo al bivio di Cergneu, poco lontano da Nimis, e da quella posizione uscivamo spesso a stuzzicare i cosacchi, cercando di capire dove questi si fossero barricati. I nostri ufficiali stavano studiando se attaccare per andare alla conquista di Nimis, la roccaforte dei cosacchi. Ci fu dato l'ordine di prepararci, ci diedero molte scatole di munizioni, caricammo i caricatori e ci fecero bere un bicchiere di grappa. A me, che non ero abituato, prese la testa: improvvisamente, con la grappa in corpo, non avevo più paura di nessuno. Con i miei pantaloni corti blu e una maglia bianca a maniche corte, ci siamo messi in marcia senza sapere quale fosse la destinazione. Solo i comandanti sapevano. Attraversammo campi e ruscelli: il cielo era coperto e minacciava temporale. Arrivammo vicino ad alcuni casolari attraversando un campo di spagna alta, alla fine del quale c'era un letamaio a forma di cubo, alto circa un metro. Il cielo era sempre più scuro e illuminato da molti lampi. Improvvisamente, da una di quelle case uscì un torrente di fuoco: le mitraglie nei granai ci tenevano inchiodati dietro al letamaio, e gli unici che potevano rispondere al fuoco eravamo Liborio ed io con le mitragliatrici. Gli altri erano tutti inchiodati dal nemico e non potevano muoversi. In quel momento cominciò anche a grandinare e caddero chicchi grossi come uova: venivano giù con una tale violenza che pensai di essere stato colpito. Ormai eravamo lì da ore, il nemico resisteva ed era difficile stanarlo. Il comandante, vedendo che non c'era niente da fare, ordinò a noi con la mitraglia di ripiegare: era una parola, con le nostre maglie bianche eravamo estremamente visibili, ma quello era un ordine e dovevamo rispettarlo. Così cominciammo a strisciare sotto il fuoco nemico: sentivo le pallottole traccianti conficcarsi nel terreno sfrigolando. Centimetro dopo centimetro, arrivammo alla fine del campo di spagna: rimaneva un ultimo tratto da percorrere alzati per poi gettarsi in un fosso. La terra si sollevava sotto le raffiche. Ci tuffammo entrambi senza alcun danno, e ci siamo messi subito a riempire i caricatori per rispondere al fuoco e coprire i nostri compagni. Poco distante da noi c'era anche un'altra mitragliatrice che sparava senza sosta: sul momento Liborio ed io avevamo pensato che fossero nemici e ci eravamo avvicinati sempre seguendo il fosso, stavamo quasi per spararci tra noi, ma per fortuna entrambi abbiamo visto che portavamo il fazzoletto rosso. L'altro mitragliere era ormai sordo a forza di sparare, così anche gli altri riuscirono a ritirarsi. A quel punto il comandante inviò una staffetta per chiedere rinforzi o indicazioni su cosa dovessimo fare, mentre in lontananza si sentivano suonare con insistenza le campane del paese. Noi ci chiedemmo chi fosse a suonarle, ed eravamo anche un po' preoccupati, vedendo che la staffetta non tornava. Forse erano stati scoperti. Ne mandammo un'altra, e invece proprio allora ritornò la prima, e ci fu dato l'ordine di ripiegare, insieme alla notizia che Nimis era nostra e che avevamo cacciato il nemico. Quelli che suonavano le campane erano i nostri. Tornammo indietro da dove eravamo partiti, ci fu ordinato di entrare nel paese. Le strade erano piene di carri e cavalli cosacchi abbandonati. Una vola dentro il paese, la gente ci accolse felice, non riuscivano quasi a credere che avessimo sconfitto il nemico. Il nostro distaccamento prese posizione sulla collina, e durante la notte scavammo una trincea per appostare la mitraglia pesante Breda, mimetizzata con rami tutto intorno. Da dove ci trovavamo si dominava una zona molto vasta: sotto di noi c'era la strada, il torrente Torre, che ci teneva compagnia con il rumore dell'acqua, alle nostre spalle c'era il paese di Nimis. I primi giorni regnò una calma da non credere, poi, nei giorni successivi, subimmo qualche attacco. Verso l'imbrunire, i nostri andavano a stuzzicare il nemico verso Tarcento, e loro facevano lo stesso con noi. Entrambi cercavamo di capire dove fossero le posizioni più importanti. Una sera uno dei nostri che si era sdraiato per riposare venne colpito da una pattuglia cosacca che sparava all'impazzata. Noi rispondemmo al fuoco con rabbia.
Nei giorni successivi qualcuno ci portò su un grammofono e qualche disco e noi, nel silenzio della notte, ci divertivamo a suonare "Lili Marlen".
Dopo quindici giorni ci fu dato il cambio, e fummo messi a riposo. A me toccò di andare di guardia alle prigioni, ma non durò molto perché una mattina cominciò il finimondo. Pensai che fosse un attacco nemico di breve durata, ma mi sbagliavo. L'azione era cominciata a Tarcento, con un treno blindato; poi c'erano le truppe autotrasportate, i carri armati, l'artiglieria e anche i lanciafiamme. All'alba del ventisette settembre fui chiamato insieme ai miei compagni a combattere sul nostro fronte, da Prestento a Faedis, a Nimis. Io fui chiamato subito e fui portato assieme ai miei in prima linea, in un fosso. Ero riparato da un vigneto, e alcune granate arrivarono nelle vicinanze: vedevo scomparire le viti poco lontano da me. Dopo alcune ore ci presero e ci fecero spostare, e per attraversare le strade che erano minate ci mandarono un compagno che sapeva dove erano state piazzate le mine, altrimenti saremmo saltati in aria. La nostra postazione sulla collina era stata centrata dal bombardamento, e chi non era morto era di sicuro gravemente ferito: potevamo sentire i lamenti. Poi presero posizione i Tedeschi: ora eravamo noi sotto il loro tiro. Da lassù dominavano la nostra zona. Dovevamo riconquistare la nostra zona, ma non era facile avanzare sotto il tiro incalzante: prima tiravano con il mortaio, e subito dopo con la mitragliatrice. Riuscimmo ad arrivare fin sotto, rischiando di essere facilmente colpiti e attraversammo un campo di granoturco nel quale sentivo le canne spezzarsi sotto le raffiche e sparire i solchi sotto i piedi. Usciti dal campo e sempre sotto tiro, abbiamo trovato un riparo, e lì abbiamo cominciato a rispondere al fuoco, ma poi, vedendo che il tiro del mortaio si avvicinava sempre di più a noi, decidemmo di spostarci. Era ormai notte quando ci ritirammo, vedendo che non c'era niente da fare, per ritornare dove c'era tutta la nostra brigata. I combattimenti proseguivano ininterrottamente. I carri armati erano stati fermati, alle nostre spalle la Osoppo aveva ceduto ad Attimis, e cominciavamo a sentirci circondati. La notte era fredda, e cadeva una pioggia fitta e insistente. Venimmo poi a sapere che i Tedeschi erano arrivati fino a Canebola minacciando le nostre spalle. Non ci restava che riprendere la via delle montagne, ma come ne potevamo venire fuori, se eravamo circondati? I Tedeschi avevano conquistato anche Platischis dove si trovava un battaglione sloveno: l'attacco era stato sferrato a ferro di cavallo. Noi stavamo aspettando ordini per il da farsi quando arrivò la notizia che la divisione Garibaldi aveva rotto l'accerchiamento dopo una lotta furiosa. Il nemico si stava ritirando e così noi potemmo proseguire verso i monti. Non ho mai saputo quante furono le nostre perdite, di certo molte, ma tutti noi avevamo combattuto con accanimento.
I Tedeschi continuarono a bombardare anche dopo la nostra ritirata, e quando arrivarono a Nimis e a Faedis incendiarono i paesi. La gente fuggì portandosi dietro le poche cose che era riuscita a racimolare, qualcuno anche con niente. Erano terrorizzati. I Tedeschi, dopo gli attacchi, mandarono i cosacchi a presidiare. La brigata Picelli fu inviata a Monteprato. Il ventotto settembre il nostro battaglione Manin contrattaccò a Faedis, e il nemico fu ricacciato. La Osoppo si trovava in difficoltà e noi mandammo in suo aiuto il battaglione Attimis. Con grande slancio, questi ricacciarono i Tedeschi. Ritirandoci verso Monteprato mettemmo in difficoltà la posizione della Osoppo, così andammo verso Taipana: eravamo sfiniti e demoralizzati, avevamo fame ma i viveri non arrivavano. Io andavo a elemosinare qualcosa nelle famiglie oppure dal prete. La popolazione della montagna rinunciava al cibo per darlo a noi, e, infatti, io riuscivo sempre a trovare qualcosa da mangiare. Una mattina toccò alla nostra squadra andare di pattuglia verso Monteaperta: dovevamo essere prudenti perché non sapevamo cosa avremmo trovato dopo la ritirata. Arrivati alle prime case, appostammo la mitraglia in un punto da dove si vedeva la strada, mentre gli altri andavano in giro a controllare e a chiedere alle famiglie se si fossero visti in giro i cosacchi. Una famiglia ci regalò una bustina di quelle per fare il budino, chiedemmo un po' di latte e un recipiente, e una volta mescolato il tutto, mettemmo il budino a raffreddare nella vasca dell'acqua fredda. Avevamo tutti l'acquolina in bocca, e non vedevamo l'ora che si raffreddasse. Sul più bello arrivò qualcuno dal paese, per dirci che stava salendo un convoglio di cosacchi. Noi eravamo già in posizione per riceverli, ma la gente ci chiese di ritirarci per la paura che incendiassero il paese. Ci convinsero e ci ritirammo, lasciando nella vasca il nostro budino.
Da Taipana ci spostammo a Porzùs, a Valle dove c'era il comando e dove venivano fatti i lanci di armi dagli Inglesi. Lì vicino c'era una radura pianeggiante che era l'ideale per questi lanci. Noi preparavamo dei segnali luminosi per indicare la posizione, poi il comandante inglese comunicava via radio col pilota. Erano rimasti in pochi della divisione Osoppo, il comando inglese aveva dato disposizione che tutti fossero mandati a casa per l'inverno. Alla ripresa dell'offensiva si sarebbero dovuti ripresentare. Invece, noi della divisione Garibaldi Val Natisone eravamo rimasti tutti ai nostri posti. Il cibo scarseggiava, la fame era nera, i ricognitori tedeschi giravano e lanciavano manifestini che incitavano a disertare e a tornare a casa, assicurando che a chi lo avesse fatto non sarebbe stato torto un capello.
Avevamo con noi ancora qualche cavallo preso ai cosacchi, e ci toccò ucciderli uno alla volta per poter mangiare. Toccò anche al mio, benché io non fossi d'accordo. Mi ci ero affezionato, e poi mi era utile per trasportare armi e munizioni. Un giorno, accadde che eravamo dentro ad una baita, in paese, e ci furono portate armi nuove: ci consegnarono un fucile "novantuno" a testa, insieme a vari caricatori. Uno dei nostri provò a caricare il fucile e inavvertitamente partì un colpo dalla canna, che era rivolta verso l'alto, verso il piano soprastante. Si sentì un urlo e subito salimmo per vedere cosa fosse accaduto: uno dei compagni era intento a uccidere qualche pidocchio e se ne stava lì, con le brache calate. La pallottola partita accidentalmente lo aveva preso di striscio all'interno della coscia, colpendo però il suo membro, che aveva la testa penzoloni appesa ad un filo di carne. Il nostro compagno era davvero sfortunato, perché era appena guarito da una ferita alla natica che si era procurato durante la conquista di Nimis. Era toccato a noi medicarlo alla meglio.
Di primo mattino ci fu l'attacco dei Tedeschi. Noi dovemmo abbandonare il paese e lasciare il ferito nella baita. L'indomani riuscimmo a ritornare indietro, per riprenderci il ferito, ma non trovammo più né lui né i Tedeschi, che se l'erano portato via. La gente del paese aveva cercato di aiutarlo, dicendo ai Tedeschi che volevamo ucciderlo, e che per questo non l'avevamo portato via con noi. Loro ci credettero, e lo portarono giù in pianura, e lo curarono.
Tornammo a Prossenico, e la nostra squadra fu messa di postazione vicino al cimitero, dove c'erano alcune baite adibite a fienile. Dovevamo controllare la strada tra Longo e Bergogna e il ponte sul Natisone. Quella strada rappresentava per noi un pericolo, perché portava a Caporetto, dove c'era il grosso delle forze nemiche. Il cielo era coperto e soffiava un vento gelido, mentre stavo facendo le mie prime due ore di guardia. Gli altri erano dentro il fienile a riposare. Il capoposto era Andrea, quel mio compaesano col quale ero andato quella notte a cercare il disertore. Cominciava a cadere qualche fiocco di neve quando finì il mio turno, e io rientrai per scaldarmi e riposare. Quello che prese il mio posto era un ufficiale dell'aviazione russa che era stato fatto prigioniero dai Tedeschi. Alla prima occasione era fuggito e si era unito a noi, ed aveva già partecipato a molti combattimenti, compreso quello di Moimacco che si era svolto mentre aspettavamo che passasse un'autocolonna tedesca. Il russo aveva sempre combattuto con tenacia: il suo nome di battaglia era Tovarisch. Aveva una quarantina d'anni, era un tiratore scelto e aveva in dotazione un fucile tedesco di alta precisione, un "tac pum", così lo chiamavamo. Oltre al fucile, portava anche una pistola Mauser calibro nove.
Quella sera, dopo avermi dato il cambio, tornò alla baita dopo appena dieci minuti per fumare una sigaretta, cosa -questa- assolutamente proibita all'esterno perché di notte era visibile. In quel momento passò l'ispezione, e non trovando nessuno al posto di guardia, entrarono nella baita con i mitra spianati con l'intenzione di ucciderci tutti. Il capoposto, che era il responsabile, dovette dare delle spiegazioni, mentre era sotto tiro. Io, da parte mia, mi sentivo con la coscienza perfettamente a posto. Agli ufficiali che volevano sapere chi fosse di guardia spiegai che ero appena smontato, e che Tovarisch era uscito e poi rientrato per fumare una sigaretta. Il capoposto scaricò la colpa anche su di me, che non c'entravo nulla, ma dato che ero il più giovane non ci fu nulla da fare: l'ufficiale ordinò al capoposto di portarci in paese ad una cert'ora per essere processati. Io mi arrabbiai moltissimo col capoposto che non mi aveva difeso, forse perché aveva paura del russo. Per noi partigiani quelli erano momenti molto critici, e gli ufficiali avevano le loro buone ragioni; la nostra legge era "quello che veniva sorpreso a dormire al posto di guardia, non si svegliava più", e a molti purtroppo era già successo. Quella notte non riuscii a chiudere occhio, e rimproverai con forza sia il russo che il capoposto per non aver detto la verità, e non mi riuscì di chiudere occhio. Al mattino ci portarono in paese, me, il russo e il capoposto. Eravamo armati, e ci portarono in una casa nel cui salone era riunito tutto lo stato maggiore: Sasso, Vanni, Ettore e tutti gli altri. Loro, seduti, noi, invece, in piedi. Il processo ebbe inizio, io raccontai la mia versione e il russo la sua. Dopo averci ascoltati, emisero il verdetto: fucilazione, per entrambi. Dovevamo essere un esempio anche per gli altri. Gli ufficiali erano poco ben disposti anche a causa della sconfitta subita a Nimis, e non cambiarono assolutamente idea: dovevamo essere fucilati. Io piangevo, sapendo di essere innocente e di aver fatto il mio dovere. Ma accadde una specie di miracolo: il russo estrasse la pistola dalla fondina e con una rapidità e un sangue freddo impressionanti lasciò di stucco tutti i presenti. Puntando la pistola contro i giudici, disse poche parole, molto significative: "Tovarisch kaputt, voi tutti kaputt". I presenti impallidirono, soprattutto perché lo conoscevano e sapevano che non scherzava, e in più aveva una mira infallibile. Rimasero tutti muti. Poi uno parlò, non mi ricordo se Sasso, o Andrea, o Vanni: "Guardate, per questa volta vi perdono e potete andare, ma ricordatevi che al più piccolo sbaglio vi faccio fuori sul posto".
Non sono mai riuscito a perdonare il capoposto, e mio compaesano, per non aver detto la verità: lo chiamavamo "Sanguinario", perché non avrebbe perdonato neanche sua madre, e tutti avevano paura di lui. Lui cercava qualsiasi scusa per provocarmi, e io avrei dato non so cosa perché lui passasse per l'ispezione mentre ero di guardia di notte, così forse avrei trovato il coraggio di sparargli.
La battaglia di Nimis si era conclusa con un bilancio pesante: 55 caduti, 50 feriti e 170 prigionieri. Le perdite del nemico erano ancora più pesanti delle nostre: 430 morti, centinaia di feriti e 2 prigionieri. Avevamo perduto anche molte armi e materiali. Da Prossenico ci siamo trasferiti a Montefosca, un paese attorniato dai monti. Erano vari giorni che pioveva di continuo, la nebbia copriva i monti e la visibilità era scarsa. Ciò che restava della brigata Picelli si appostò sui monti sotto la pioggia insistente. Il mio distaccamento invece rimase in paese, dentro una casa. Verso sera portarono un fascista con le mani legate: era stato processato e condannato ad essere fucilato. Lo portava dentro il comandante Sanguinario, quello che ce l'aveva con me dal processo di Prossenico, e me lo diede in consegna. Mi disse: "Tu sarai responsabile e se lui fuggirà sarai tu a pagare, andrai davanti al plotone d'esecuzione." Me lo disse con aria di sfida. Ci lasciarono soli, io col prigioniero che per tutta la notte non fece altro che lamentarsi perché aveva le mani legate troppo strette. Mi pregava di allentargli i lacci, ma io non potevo, pensavo continuamente alle parole del mio superiore. La luce del lampione a petrolio che illuminava la stanza si faceva sempre più debole, e io avevo sempre più paura di rimanere al buio. Ma lui insisteva, mi pregava di slegarlo, e di fuggire assieme.
All'alba i Tedeschi attaccarono: i nostri resistevano, ma i nemici continuavano a martellare. Da sotto, noi non riuscivamo e vedere niente perché l'altura era coperta dalla nebbia. Ci fu dato l'ordine di scavare una buca in un piccolo campo, sotto la pioggia, e poi di portare il prigioniero sul posto. Misero anche me nel plotone d'esecuzione. Quando ci fu dato l'ordine di sparare, anch'io feci fuoco, senza ricaricare l'arma. Nelle nostre file regnava il caos, ci diedero l'ordine di ripiegare perché non era possibile sapere per quanto tempo i nostri, lassù in alto, avrebbero potuto resistere. I Tedeschi avevano, infatti, ricevuto rinforzi: truppe cosacche, bellagardisti e cernici. La battaglia si stava facendo più cruenta, i sentieri argillosi facevano scivolare e così facevamo dieci passi avanti e quattro indietro, mentre la nebbia e la pioggia ci coprivano. Arrivati nei pressi di Robidischi ci fermammo, per coprire la ritirata dei compagni che erano in prima linea, poi scendemmo giù, attraversammo il Natisone in piena, poi risalimmo a Prossenico e lì affrontammo il nemico, e ad aspettare che tutti fossero arrivati. C'era con noi anche il battaglione scuola ufficiali. Cominciava a fare buio, e noi dovevamo nuovamente scendere e attraversare un altro torrente in piena. Nessuno di noi volle attraversare, perché, nonostante cominciasse a fare buio, dal rumore dell'acqua si poteva capire che il torrente stava trasportando con furia tronchi e massi, tanto da far tremare la riva. Uno di noi ci provò, e fu travolto, ma per fortuna riuscimmo a salvarlo. I nostri superiori, vedendo che rifiutavamo di obbedire all'ordine, si piazzarono ai due lati con i mitra spianati, minacciandoci di morte se non avessimo attraversato. Cercammo allora un sistema per non essere travolti, e ci abbracciammo formando una lunga catena, stringendo forte i primi perché l'acqua li sbatteva da tutte le parti. I muli carichi, invece, non riuscirono a passare.
Era già buio, e dovemmo risalire a Platischis. I Tedeschi avevano cessato di sparare, ma fu comunque molto faticoso percorrere quella salita di cinquecento metri. Ci mettemmo più di due ore perché il terreno era scivoloso, e avevamo perso sia cavalli che muli. Arrivati sulla strada tirammo un sospiro di sollievo. Si poteva passare uno solo alla volta, perché qualcuno l'aveva fatta saltare, e di fianco c'era un costone roccioso. Arrivammo in paese tutti bagnati fradici, pieni di freddo e fame, e subito studiammo la posizione, dove mettere gli uomini. Quando tutti furono ai loro posti, andammo a turno nelle famiglie che ci ospitavano per cercare di far asciugare i vestiti, ma fu un lavoro inutile, tanto dovevamo stare di nuovo sotto la pioggia, fermi, ad aspettare il nemico. Di primo mattino cominciò il bombardamento con i mortai, mentre i mezzi pesanti non potevano venire avanti perché la strada non lo permetteva, e se avessero tentato, avrebbero avuto molte perdite, perché c'era un unico passaggio obbligato. Restammo due giorni sotto l'acqua, in attesa, senza mangiare. La situazione era abbastanza critica perché non potevano arrivarci rifornimenti, così intervennero gli ufficiali, chiedendo agli abitanti di metterci a disposizione quello che avevano per sfamarci. Poi andammo alla ricerca dei muli, e li trovammo nei prati a pascolare, con tutto il carico. Il terzo giorno ritornammo a Prossenico, nei nostri territori. Il mattino seguente mandammo una pattuglia a Longo che si trovava oltre il Natisone, dopo una strada che saliva a serpentina. Quando i nostri furono a metà strada, vennero accolti da raffiche di mitra, e restarono lì inchiodati tutto il giorno, subendo anche delle perdite. Il mattino seguente toccò alla mia squadra andare di pattuglia nello stesso paese, ma non più lungo la strada ma passando per i campi e i prati. Il caposquadra era Andrea, il mio compaesano. Ad un certo punto non volle più proseguire; io non so cosa mi prese, ma mi misi alla testa del gruppo col mitragliatore, rasentando le mura del paese, e restando il più coperto possibile, attraversai tutto il borgo senza incontrare nessuno. Proseguimmo per Bergogna, e lungo il cammino vidi un uomo in divisa che fuggì subito non appena ci vide. Una volta arrivati, ci venne incontro un ufficiale sloveno che ci chiese se avessimo visto uno dei suoi in ricognizione. Noi gli spiegammo che l'uomo se l'era data a gambe non appena ci aveva visto, così l'ufficiale si mise a bestemmiare, e lo mandò a cercare. Si era condannato da solo.
In paese chiedemmo se si potesse avere qualcosa da mangiare.
Dopo esserci accertati che non ci fossero nemici tutto attorno, rientrammo alla nostra base. Ci spostavamo continuamente, ma al nostro posto arrivavano altri battaglioni. L'inverno si faceva sentire, cominciavano a scarseggiare i vestiti e le scarpe, e per lo più i vestiti che avevamo erano pantaloni di tela e magliette, e in quelle condizioni non potevamo certo combattere il freddo. Io ero il più sfortunato, perché non si riusciva a trovare un paio di scarpe della mia misura. Più volte avevo dovuto camminare scalzo sui sassi e sui ricci di castagne, ormai ci avevo fatto l'abitudine. La gente aveva cominciato a benvolermi, e qualcuno mi offrì delle ciabatte fatte in casa, con la suola fatta di copertone. E poi c'era la grande fame: le provviste non arrivavano, i nostri non riuscivano a passare le linee nemiche, perché i Tedeschi volevano proprio prenderci per fame. Bisogna ringraziare tutta la gente della montagna, che quando poteva ci aiutava: io andavo nei campicelli a prendere qualche rapa ghiacciata, ma le mangiavamo lo stesso; io avevo delle coliche da rotolarmi per terra. A volte ci offrivano delle caldarroste, e anche con quelle avevo grandi bruciori di stomaco. Ogni tanto, quando andavo di pattuglia, attraversando i paesi vedevo dei paioli di castagne bollite lasciati a raffreddare per poterli dare ai maiali, e mi riempivo le tasche; così, mentre camminavo, me le mangiavo di gusto. La gente mi vedeva, ma chiudeva un occhio.
Un giorno si sparse la voce che la nostra divisione avrebbe dovuto aggregarsi con gli sloveni: la divisione Osoppo non accettò, ma i nostri ufficiali ci dissero che avremmo dovuto raggiungere il IX Corpus Sloveno. Io personalmente non fui contento di quello spostamento, e poi non avevo molta simpatia per gli sloveni. Per quanto fossimo in molti a pensarla così, dovemmo ubbidire. La neve aveva cominciato a coprire i monti, e i Tedeschi non ci davano tregua, ma non riuscivano mai a sfondare. Sui monti eravamo i più forti e decisi. Quando ci attaccarono a Nimis avevano impiegato ventinove mila uomini tra cosacchi, repubblichini, X mas e fascisti slavi, comandati da Friederich Rainer, ma i miei compagni si erano battuti eroicamente, e la nostra brigata Picelli venne lodata dal comando superiore. I morti nemici furono 430, e molti i feriti e i mezzi danneggiati.
Il ventinove novembre il battaglione Manin sequestrò del materiale destinato alla Osoppo: viveri, vestiario e munizioni che erano stati nascosti. Tra la Garibaldi e la Osoppo si era rotta l'alleanza, a causa del fatto che questi ultimi non volevano allearsi con gli sloveni del IX Corpus, i quali a loro volta non ci vedevano di buon occhio perché accampavano diritti sui confini. Il primo gruppo partì il ventiquattro novembre. Il dodici dicembre i Tedeschi, che venivano da Pulfero, attaccarono la brigata Picelli nel settore tenuto dal nostro battaglione Manin: dopo diverse ore di combattimento fummo costretti ari piegare nel vallone fra Robedischis e Platischis, senza subire perdite. Poi, dalle alture di Platischis, abbiamo fronteggiato il nemico fino a quando il comando di divisione non ebbe raggiunto una zona calma a Montemaggiore, vicino al Matajur, sotto una pioggia fredda e insistente.
Il venti dicembre fu deciso il trasferimento della divisione della zona di Circhina. Prima di partire avevamo attaccato un'autocolonna che portava viveri e vestiario alle truppe tedesche, a Caporetto e Tolmino. Il bottino di quell'attacco fu molto ricco: un numero imprecisato di forme di parmigiano che, una volte divise, ci portarono circa tre chili di formaggio a testa. A me toccò anche una divisa tedesca e un paio di scarpe.
La nostra marcia cominciò: la strada da percorrere era lunga, e si camminava solo di notte per non farsi notare dal nemico, mentre di giorno ci si riposava nei fienili. Io mi scavavo un buco e mi ci infilavo dentro tutto vestito. Eravamo pieni di pidocchi, e le pezze da piedi erano puzzolenti. Con la fame che avevamo, mi ero fatto fuori il parmigiano così, a secco, ma poi il problema era stato andare di corpo. Avevo una tale difficoltà che dovetti aiutarmi con le dita, procurandomi dolore e perdite di sangue. Le notti erano fredde e stellate, e vedevo dietro di me una fila infinita di uomini, muli e cavalli carichi, tutti impegnati in una marcia che durava da giorni. Attraversammo monti e paesi di cui non ricordo i nomi; una volta arrivati al fiume Isonzo tra Idresca e Kamina, ci fu ordinato il massimo silenzio perché avevamo il nemico a sinistra e a destra, e dovevamo attraversare la statale e il fiume. Eravamo tutti sfiniti, e il fiume era mezzo gelato, tanto da sembrare fermo. Ci preparammo a levarci le scarpe e i vestiti per non bagnarli. La temperatura era gelida, qualcuno diceva che c'erano venti gradi sotto zero. Io ero lì lì per svestirmi, mentre vicino a me uno dei nostri lasciò cadere a terra nella ghiaia le bombe anticarro Piat, e una di queste batté su un sasso con la punta, rompendo il silenzio. A quel punto ci fu ordinato di attraversare il fiume, che in quel punto era piuttosto largo, tutti vestiti. Io avevo le scarpe a tracolla, e appena mi infilai nell'acqua gelida mi accorsi che era profonda, ed era tutt'altro che ferma, mi trasportava via. Anche i muli facevano fatica, ma dovevamo fare presto, perché il colpo era stato sentito anche dal nemico, e potevamo essere sorpresi.
Dovevamo per prima cosa appostare i primi in posizioni strategiche per coprire tutto il resto che era dietro di noi. Io uscii dall'acqua sentendo sotto i piedi la ghiaia ghiacciata e attaccata, ma dovevo proseguire; il vestito, man mano che andavo avanti, diventava rigido dal freddo. Per tutta la notte camminammo sui sentieri ghiacciati del monte Sella, si scivolava, anche i muli scivolavano e cadevano giù nei precipizi con tutto il loro carico e lanciando dei lamenti. Ogni tanto, trovavamo qualche posto di blocco sloveno che ci dava l'altolà, noi rispondevamo con la parola d'ordine e poi proseguivamo. Non si arrivava mai alla fine di quella mulattiera, tutto intorno a noi, nella luce della luna, solo neve, ghiaccio e burroni. Finalmente, di primo mattino, arrivammo al paese di Selo: io ero ancora bagnato, e molti altri come me. Subito ci misero ognuno in un punto strategico: da dove eravamo piazzati noi della seconda squadra del secondo distaccamento del battaglione Manin si dominava tutta la pianura verso Santa Lucia. Era l'ultimo dell'anno e i Tedeschi stavano festeggiando sparando e lanciando razzi. Noi dall'alto assistevamo alla scena. Il nostro contingente doveva passare ad ogni costo oltre il Bacia, che era presidiato dai Repubblichini. La nostra divisione era costituita da duemila cinquecento uomini, e una parte di questi erano già passati. Ora toccava alla Brigata Picelli con i battaglioni Manin, Verrucchi e Pisacane. Durante la giornata ci accorgemmo che all'appello mancava un uomo. Lo cercammo dappertutto, ma di lui nessuna traccia. In paese c'era un comando sloveno e per prima cosa i nostri ufficiali andarono in cerca di cibo. Eravamo tutti affamati, e pieni di freddo. Il termometro segnava venti sotto zero. La giornata era limpida, il sole ci scaldava un poco e io riuscivo a sentire i pidocchi muoversi e uscire dalle cuciture dei vestiti. I nostri ufficiali, dopo aver discusso con gli sloveni, riuscirono a racimolare appena cinque chili di fagioli e altrettante patate. Avevamo chiesto anche una pecora, ma non ce la vollero dare. Così raccogliemmo tutto quanto, andammo in un caseificio e mettemmo a bollire il tutto in una grande caldaia. Verso sera, la minestra fu distribuita: toccarono circa due o tre fagioli a testa, ma almeno quel piatto caldo ci scaldò un poco lo stomaco, pur senza placare la fame. I nostri ufficiali ci dissero che si erano messi d'accordo con i repubblichini per il nostro passaggio, ma chissà se era vero. In quella zona da parecchio tempo c'era un discreto movimento di partigiani e probabilmente i Tedeschi lo sapevano, con tutte le spie che avevano.
Verso mezzanotte ci mettemmo in cammino: uscimmo dal paese, attraversammo una zona boscosa, scendemmo giù dalla montagna verso il ponte sull'Isonzo. Noi della seconda squadra eravamo a poche centinaia di metri dalla pattuglia, la luna illuminava la discesa e tutto era silenzioso. Arrivati a pochi metri dalla strada, la nostra pattuglia sparò una raffica di colpi, e in quel momento fummo investiti da un fuoco furioso proveniente da ogni parte: erano colpi di mitraglia pesante e leggera, mitra, bombe e mortai. In più, c'erano dei razzi che illuminavano tutta la zona. Eravamo stati presi alla sprovvista. Io cercai un riparo sotto i compagni morti, e attesi la fine dell'agguato. Poi vidi spuntare alcuni Tedeschi con il mitra spianato, e mi alzai, tenendo le mani alzate in segno di resa. Mentre più in alto ancora si sentiva sparare, fui preso prigioniero con una decina di compagni: ci legarono i polsi e ci portarono in un casolare dove regnava una grande confusione. C'erano Alpini, Bersaglieri della Repubblica di Salò e Tedeschi. Questi ultimi ci volevano fucilare, e ci misero per due volte al muro; poi decisero di mandare una staffetta in motocicletta a Tolmino perché il comando decidesse della nostra sorte, ma i Repubblichini si opposero, dicendo ai Tedeschi che non erano d'accordo con loro sulla nostra fucilazione, che avevano già avuto abbastanza morti e che in quel presidio comandavano loro. Così, alla fine, ci portarono a Tolmino a piedi, legati. Una volta arrivati ci fecero entrare dentro a una prigione, in un'unica cella senza letti, né paglia, né coperte. Ci slegarono sotto la sorveglianza dei militari, sempre con i mitra spianati. I nostri angeli custodi erano della Wermacht. Era ancora notte e ci sdraiammo sul pavimento gelido, in attesa di una loro decisione. Era quasi mattina quando la porta della cella si aprì ed entrarono alcuni militari accompagnati da un ufficiale della Wermacht. Ci chiesero dei volontari per andare a seppellire i nostri morti, e i nostri che offrirono per quel lavoro rientrarono solo alla sera. Di cibo non se ne vedeva, così chiedemmo all'ufficiale se fosse possibile avere qualcosa da mangiare. Questi rispose che aveva l'ordine di non darci niente. Entrò da noi il mattino dopo con una pagnotta di pane nero sottobraccio, la fece a fette e ce la offrì, dicendoci che quella era la sua razione di pane e che aveva dato ordine agli alberghi di Tolmino di mettere da parte gli avanzi per noi, ma noi quegli avanzi non li vedemmo proprio. In quella cella dove eravamo tenuti prigionieri e custoditi dalla Wermacht si svolgeva un vero e proprio pellegrinaggio di soldati fascisti e bellagardisti che volevano entrare ad ogni costo con le baionette in mano e farci fuori tutti, ma la Wermacht li tratteneva. Potevamo vederli, con la bava alla bocca dalla rabbia, quando cercavano di sfondare la porta della cella, ma arrivarono dei rinforzi che li obbligarono ad uscire.
Restammo in quella cella per tre giorni infernali, poi una sera ci legarono uno alla volta i polsi, ci fecero uscire e fuori trovammo di nuovo una folla di militari fascisti, cosacchi, bellagardisti, mentre i Tedeschi ci proteggevano da quella marmaglia assetata di sangue. Fummo fatti salire su due camion scoperti, misero un uomo con la mitraglia sopra la cabina di guida, e un altro in fondo al cassone col fucile. Fecero sedere noi prigionieri sul cassone. Non avevo idea di dove fossimo destinati. I Tedeschi, vedendo che la folla era molto agitata e ci stava minacciando, diedero l'ordine di partire: se li avessero lasciati fare, ci avrebbero sbranato o decapitato, e avrebbero infilato le nostre teste sulle baionette. Era così che facevano.
I due camion si mossero, e la folla ci seguì finche poté. Il nostro camion prese molta velocità e andò ad urtare contro un angolo di una casa: l'impatto col muro fece fare delle scintille al cassone di metallo e mi accorsi che i lacci alle mani si erano allentati, avrei potuto liberarmi. Mi chiesi se anche qualche altro dei miei compagni avesse potuto liberarsi, e scrutai gli altri cercando nei loro occhi un segno che mi facesse capire. Se qualcuno mi avesse fatto un segno, avrei potuto immobilizzare il soldato con la mitraglia, o quello col fucile che era accanto a me. Una volta in possesso delle armi, non era difficile prendere il comando della situazione. Ma mi resi conto subito che era tutta una mia fantasia, le mie mani erano congelate e non avrei potuto fare nulla. Arrivammo ad un posto di blocco nelle vicinanze di Cividale e ci fermammo, per proseguire subito dopo per Remanzacco, Udine e poi Gorizia. Quando arrivammo era ancora notte: ci portarono al comando della Wermacht, dove fummo interrogati uno alla volta. Io fui anche maltrattato perché portavo una divisa tedesca, e mi dissero che avevo ucciso un loro commilitone per procurarmi la divisa. Io risposi che ero stato prelevato a casa dai partigiani, e portato sulle montagne con loro. Dissi anche che non ero armato, ma non so se mi credettero. Mi portarono poi nella prigione di Gorizia in una cella dentro alla quale già c'erano una decina di carcerati, tutti partigiani. In fondo, c'era un secchio per fare i bisogni; a terra, della paglia per dormire. L'ispezione passava due volte il giorno per controllare che le sbarre fossero sane: le battevano un martello per controllare che suonassero bene. In quella prigione non si poteva dormire mai, giorno e notte si sentivano canti patriottici provenire dalle altre celle, e oltre ai canti c'era un viavai continuo di prigionieri che venivano prelevati, e che non ritornavano mai. Eravamo tutti terrorizzati; il nostro unico passatempo era spidocchiarsi.
Un giorno entrò un Tedesco nella nostra cella, e chiamò il mio nome. Io lo guardai con paura e risposi facendomi avanti. Mi ordinò di seguirlo, e mentre passavo con lui davanti alle altre celle mi chiedevo se avrei fatto anch'io la fine di tutti gli altri, che non erano ritornati. Mi fecero entrare in una stanza dove era sistemato il comando, e con mia grande sorpresa davanti a me trovai mio padre. L'ufficiale tedesco mi disse che aveva fatto un grande favore a mio padre, perché era assolutamente proibito dal regolamento avere colloqui con i partigiani. Ci diede mezz'ora di tempo, ma restò a sorvegliarci. Per prima cosa mio padre mi chiese se stessi bene, poi se avevo notizie di mia sorella Alda, che era stata prelevata dai partigiani del paese con la promessa che l'avrebbero portata in montagna con me. Io gli risposi che non ne sapevo niente, e che in montagna non l'avevo mai vista, né avevo avuto sue notizie. Poi mi consegnò una valigia di cartone marrone che era già stata controllata dai Tedeschi: dentro c'erano indumenti di ricambio. Non vedevo l'ora di sbarazzarmi di quella divisa tedesca. Alla fine, mi riferì che il comandante del carcere gli aveva detto che l'indomani sarei stato portato in un campo di lavoro in Germania, e così fu.
Durante la guerra 1914-18, anche mio padre fu fatto prigioniero e portato a lavorare in Germania nel campo di Mauthausen.
Al mattino presto, le guardie carcerarie spalancarono i cancelli delle celle e ci fecero uscire, con prepotenza ci dissero di prendere con noi le valigie, chi le aveva, oppure i propri stracci.
Avevamo invaso tutto il corridoio del carcere, fuori dalle celle ci aspettavano i militari della 22 armati, ci costrinsero a seguirli con brutalità. Appena fuori dal carcere c'erano altri prigionieri, difficile valutare il numero, ma eravamo in molti.
Stavamo aspettando di muoverci, ci guardavamo tutti chiedendoci dove ci avrebbero portati. Ci misero in fila per quattro con ai lati la scorta di Tedeschi. Attraversammo la città di Gorizia fino alla stazione ferroviaria mentre la gente ci seguiva con lo sguardo dalle finestre, in silenzio.
Alla stazione ci aspettava un convoglio di vagoni merci con le porte aperte. Alla nostra sinistra, c'erano già dei vagoni pieni che venivano da Trieste, ai finestrini filo spinato. Ci obbligarono a salire con forza, non so quanti fossimo, so solo che eravamo pigiati come delle bestie.
Quando videro che non ce ne stavano più, fecero scorrere la porta con violenza e ci chiusero dentro. Si sentivano scattare i chiavistelli e poi piombare, si sentivano comandi secchi in lingua tedesca. Questa cerimonia non finiva mai mentre noi non vedevamo l'ora che il convoglio si muovesse. Le guardie tedesche, insieme a militi italiani, vigilavano il treno, la gente cercava di avvicinarsi ai vagoni, forzando il blocco, per poterci passare del cibo dai finestrini, ma solo quelli più vicini riuscirono a prendere qualcosa.
Trascorrevano i giorni ed il treno rimaneva fermo. I nostri bisogni dovevamo farli dentro il vagone, non c'era neanche spazio per muoversi, si dormiva in piedi come cavalli. Per fortuna eravamo in inverno e non si sentiva la puzza.
Restammo fermi in stazione per due giorni, su un binario morto. Infine il treno si mosse, sostammo a Pradamano, ed anche lì ci misero su un binario morto. Sopra le nostre teste si sentivano aerei passare continuamente.
La contraerea sparava senza interruzione: in quella zona era molto efficiente, poiché doveva proteggere la linea ferroviaria, l'unica ancora in grado di funzionare e per questo molto importante, sia per il trasporto di truppe che di materiale bellico. L'aviazione alleata non riuscì mai a danneggiarla; il sabotaggio era un compito che spettava ai partigiani, per ritardare l'arrivo dei convogli durante la notte.
Il convoglio si mosse per fermarsi alla stazione di Udine. Si sentiva un gran movimento assieme a degli ordini in tedesco, poi l'agganciare di altri vagoni.
Finita la loro operazione fecero ripartire il treno. Era passata la mezzanotte ed il treno andava lentamente. Dal finestrino s'intravedeva la campagna coperta di neve. Noi tutti attendevamo che i nostri attaccassero il convoglio, ne eravamo quasi sicuri. Fu tutta un'illusione: di notte si viaggiava e di giorno fermavano il convoglio in galleria, dove si faceva fatica a respirare dal momento che la locomotiva era alimentata a carbone.
Dopo alcuni giorni di "pellegrinaggio", verso sera il convoglio si fermò, ma poco prima avevo capito che stavamo attraversando un ponte di ferro.
Poi si udirono dei comandi ad alta voce, come solo i Tedeschi sapevano fare.
Incominciarono ad aprire tutti i vagoni: davanti a noi si schierarono truppe armate, ben allineate con al fianco dei cani lupo addestrati. Ci ordinarono di scendere ed allinearci per quattro. Mi guardai intorno e vidi un ponte sotto al quale scorreva un grande fiume che un isolotto divideva a metà.
Il fiume era in piena e l'acqua torbida, a terra la neve. Cercai con gli occhi e lessi il nome di quella stazione: MAUTHAUSEN. In quel momento mi venne in mente che anche mio padre vi fu prigioniero nel 1918.
Da uno dei vagoni non si vide uscire nessun Tedesco, ma solo uno dei nostri compagni che poco dopo era già cadavere.
In seguito venni a sapere che il resto del vagone era riuscito a fuggire e solo quel povero disgraziato era stato sorpreso. Per questo i Tedeschi riversarono tutta la loro rabbia su quel povero sventurato uccidendolo selvaggiamente, a furia di colpi dati con i calci dei mitra.
Ci ordinarono di muoverci e di seguirli, facendoci camminare per una mulattiera tutta in salita. Attraversammo boscaglie e prati senza vedere nulla attorno a noi. Ero stanco poiché da diversi giorni non mangiavo, non bevevo e non riposavo. Stavamo sempre in piedi e quando dormivamo lo facevamo uno appoggiato all'altro.
Dopo circa tre o quattro chilometri si presentò davanti ai miei occhi una muraglia alta di granito. Tutto intorno c'erano delle garitte dentro alle quali c'erano le sentinelle armate di mitragliatrici. Ad un tratto si accesero dei fari che mandavano la loro luce su di noi.
L'ufficiale ordinò alle sentinelle di aprire il portone: sopra all'arco c'era l'aquila con la svastica, enorme, come enorme era il massiccio portone di legno.
Quando questo venne aperto entrammo e ci fecero sistemare tutti in una piazza, ben allineati. Ognuno di noi aveva con sé una valigia di cartone legata con della corda. Alcuni portavano un piccolo involto in mano, altri invece non avevano niente. Il portone si chiuse e i fari furono di nuovo rivolti verso di noi. Iniziarono a contarci. Davanti a noi misero dei cadaveri e ci dissero di consegnare tutto quello che avevamo, valige e fardelli.
Intanto sul balcone si affacciò un ufficiale che ci squadrò dalla testa ai piedi. Ci fece un discorso che io non capii, anche perché l'interprete si sentiva poco.
Ci ordinarono nuovamente di seguirli. Alla destra di questa piazza c'era una scalinata e alla fine, sempre a destra, un portone chiuso.
Attorno si vedevano molte baracche buie, c'era una grande muraglia e nel campo regnava il silenzio. Le luci lo illuminavano a giorno. Poi il portone si aprì e davanti a noi si aprì un grande spiazzo: da un lato le baracche e dall'altro alcune costruzioni, sempre in granito, con delle ciminiere dalle quali uscivano delle lingue di fuoco con un forte odore di carne abbrustolita.
Il terreno era coperto di neve e ghiaccio. Ci fecero scendere in uno scantinato, in una specie di salone si fecero spogliare tutti, ordinandoci di consegnare tutti gli oggetti personali come oro, orologi, etc. Poi ci spostarono in un altro locale, molto grande. Eravamo tutti schiacciati l'uno contro l'altro, ma vidi che c'erano delle docce, dalle quali cominciò prima ad uscire acqua ghiacciata, e poi bollente. Non c'era niente per asciugarsi.
Nel frattempo le SS controllavano che avessimo tutti consegnato i nostri oggetti: con noi c'era un prete di Lubiana che aveva al collo una catenina d'oro che non aveva consegnato. Gli dissero di togliersela, ma lui rifiutò, pregando che gli fosse lasciata perché era un caro ricordo di sua madre, ma non ci fu niente da fare, gliela strapparono con violenza e cattiveria. Il prete, che parlava bene il tedesco, cominciò allora ad offenderli nella loro lingua, ma subito attorno a lui si formò un cerchio di guardie che lo picchiarono finché non stramazzò a terra in fin di vita. Lo fecero portare via: noi tutti eravamo nudi ed avevamo assistito alla scena senza aver potuto reagire in alcun modo. Eravamo sbigottiti per tanta ferocia e freddezza. Ci fecero uscire dalle docce, nudi e scalzi, e ci fecero attraversare il campo camminando sulla neve. Ci portarono dentro una baracca gelida. A destra e a sinistra c'erano due stanzoni, vuoti. In un angolo c'erano alcune piramidi di materassi che non raggiungevano lo spessore di quattro dita. Ad ognuno di noi furono consegnati dei vestiti normali, non una divisa. Su ogni capo c'era una fascia che recava stampato un triangolo rosso con una I al centro e con un numero sotto. Ci diedero anche una piastrina numerata, che avremmo dovuto portare sempre al polso, e il numero della piastrina era lo stesso numero della fascia cucita sui vestiti.
Il kapò ci spiegò che da quel momento in poi non avevamo più un nome ed un cognome, ma solamente un numero, che dovevamo imparare a memoria. La I del triangolo stava a significare Italiano, e c'erano altre lettere in base alle varie nazionalità.
Dopo aver indossato il vestito, il kapò ci indicò i materassi: diede l'ordine di disporli per terra e ci disse di metterci a dormire. Fu un dramma, perché eravamo in cinquecento, ma in qualche modo ci riuscimmo, stringendoci come sardine, messi di fianco e con i piedi in faccia l'uno all'altro. Il kapò camminava sopra i nostri corpi, picchiandoci con una frusta per metterci a posto: dovevamo rimanere tutta la notte in quella posizione, perché se ci muovevamo non riuscivamo più a incastrarci di nuovo e rischiavamo di prenderci anche delle frustate.
Eravamo stanchi morti e pieni di freddo, ma stretti com'eravamo riuscivamo anche a scaldarci. Qualcuno dormì un po', qualcuno invece non ci riuscì. Io mi ero appena appisolato quando il kapò ci diede la sveglia. Guardai fuori e vidi che era ancora notte. Ci fece mettere a posto tutti i materassi e ci ordinò di metterci in fila indiana per andarci a lavare.
Dentro la baracca c'era una stanza con gabinetti, una vasca circolare e nel mezzo una fila di rubinetti: andammo a lavarci a turno con acqua ghiacciata e senza sapone. Guardandomi intorno vidi che c'erano tre o quattro asciugamani, ma erano completamente impregnati d'acqua e quindi più che asciugarci ci lavavamo di nuovo. Tornammo dentro la baracca: c'era qualcuno che dormiva. Là dentro eravamo di certo almeno un migliaio. Poco dopo, ci fecero tornare tutti fuori, allineandoci in fila come per una parata, e guai a chi si muoveva. I kapò passavano tra le file sempre armati dei loro manganelli di piombo e gomma. Restammo così per ore, fino a quando ci passò in rassegna la SS. Dovevamo togliere il berretto in segno di saluto, mentre lui passava in mezzo alle file controllando che tutto fosse a posto. Una volta passato, il kapò fece rompere le righe. Noi cercavamo di restare l'uno vicino all'altro per scaldarci perché la temperatura era attorno ai 12 gradi sotto zero o anche meno, e i nostri indumenti erano leggeri. Ai piedi, poi, avevamo solo degli zoccoli, e niente calzini. Con quel freddo e con la fame che avevamo, lo stomaco era a pezzi. Non mangiando, era ancora più difficile sopportare il freddo.
Non so che ora fosse perché nessuno di noi aveva più l'orologio, ma ad un certo punto vidi arrivare due detenuti che portavano due bidoni fumanti. Ci consegnarono un recipiente per la zuppa, che era in smalto tutto scrostato, ed un altro recipiente ed un cucchiaio per quello che chiamavano "caffè" ma che non era altro che una specie di tisana di foglie di tiglio, ma in quel momento non aveva importanza, perché l'unica cosa che contava era mettere qualcosa di caldo nello stomaco. Poi distribuirono una fetta di pane nero che non pesava più di cinquanta grammi e un pezzo di margarina minerale, che non era gialla ma di un colore arancio carico. Era una margarina che veniva estratta dal carbone, e tutti noi la divorammo in un attimo, sperando che a mezzogiorno ce ne dessero dell'altra insieme alla minestra. Dopo la colazione, ci fecero rientrare nella baracca e ci ordinarono di spogliarci tutti. Entrò nella baracca un gruppo di barbieri, che ci rasarono tutti, uno alla volta, non lasciando sui nostri corpi neanche un pelo.
Dopo la rasatura, ci diedero dei secchi che contenevano un liquido denso e marrone, che sembrava colla fatta con la farina, e usando dei pennelli ci cosparsero con questo liquido dicendoci che serviva per uccidere i pidocchi. Ci dissero anche che se addosso a qualcuno fosse stato trovato un solo pidocchio gli avrebbero sospeso la razione giornaliera di cibo, poiché nel campo c'era un'epidemia di tifo pidocchiale che non uccideva solo i deportati ma anche i Tedeschi, e per questo loro avevano paura.
Le nostre baracche erano isolate da quelle del campo, tutto intorno c'era una muraglia alta quasi quattro metri ricoperta di granito, sopra alla quale correva il filo spinato con l'alta tensione.
Noi non vedevamo e non sapevamo quello che succedeva nel campo. Quella zona veniva chiamata "quarantena" ma non ho mai capito perché. Ogni tanto mi sceglievano per andare a prendere i bidoni del caffè o della minestra, e facevamo un piccolo tratto di strada all'interno del campo. Fu così che ebbi occasione di vedere degli esseri che non avevano più nulla di umano: sembravano cadaveri viventi e stavano in piedi per miracolo. Qualcuno dentro a una coperta trainava un cadavere, la cui testa penzolava di fuori, con gli occhi e la bocca aperti. In quel momento non riuscivo a pensare che stesse accadendo realmente, e non credevo ai miei occhi. Probabilmente anche i miei compagni avevano i miei stessi pensieri.
I camini fumavano giorno e notte, e lasciavano vedere delle lingue di fuoco. C'era un odore costante di carne bruciata. Non riuscivo ad abituarmi a questa cosa: mi chiedevo dove mi avessero portato, perché quello non era un campo di lavoro come mi avevano detto. Oltre a quello che avevo visto ci doveva essere dell'altro che non si vedeva e che nessuno di noi sapeva.
Una mattina ci chiamarono e ci fecero delle fotografie in varie pose, solo fino al busto, in modo che si leggesse il nostro numero. Alla sera ci consegnarono dei guanti di feltro e il giorno dopo, alle quattro del mattino, ci misero in fila per quattro e fecero l'appello. Contemporaneamente aprirono il cancello a sbarre di ferro e diedero l'ordine di muoversi. Attraversammo il campo ed il silenzio era rotto dal rumore dei nostri zoccoli. Eravamo sorvegliati da entrambe i lati dai Tedeschi che portavano i cani al guinzaglio. Ricordo che, dopo aver camminato per vari chilometri, si presentò davanti a noi la ferrovia. Sui binari c'erano dei vagoni aperti sui quali ci fecero salire. Poi il treno si mosse, per quale destinazione era un mistero. Più tardi il convoglio si fermò e ci fecero scendere tutti quanti e camminare lungo le rotaie. Si intravedevano vagoni rovesciati, profonde buche, binari contorti... era un'ecatombe di vagoni. Ci fermarono per consegnare a chi la pala e a chi il piccone con l'ordine di sgomberare i binari, riempire le buche e ripristinare la linea ferroviaria che portava in Italia. Soffiava un freddo vento, c'erano neve e ghiaccio e nessuno di noi aveva il cappotto o una maglia pesante. Solo una camicia e una giacca di cotone con una temperatura che oscillava tra i 12 e i 18 gradi sotto lo zero. Ma nessuno di noi sentiva il freddo, non ne avevamo il tempo e con chi faceva il lavativo i Tedeschi usavano la frusta.
Intravidi per un attimo il nome della stazione: c'era scritto LINZ.
Lavoravamo a turni di 12 ore al giorno ed il turno di notte era seguito da esperti Austriaci.
Sia il giorno che la notte si sentivano e vedevano i bombardieri alleati passare e le sirene suonare. I Tedeschi si riparavano sotto i vagoni e poche volte spostavano anche noi. Sapevano che qualche bomba poteva cadere sulla città e sulla stazione.
Linz era una città industriale. Quasi tutte le industrie e le stesse abitazioni civili, erano state rase al suolo. In piedi ci rimaneva veramente poco.
La sera, dopo una dura giornata di lavoro, stanchi e sfiniti, dovevamo camminare per riprendere il treno. Non si ritornava a Mauthausen bensì al campo di Gusen, che era un sottocampo di Mauthausen. Anche lì, prima di entrare, facevano l'appello. Dovevamo poi attendere che la baracca si svuotasse da quelli che facevano il turno di notte nelle fabbriche che si trovavano nelle gallerie sotterranee dove venivano fabbricati aerei ed armi.
Non vedevamo l'ora che questi sgomberassero la baracca. Prima di entrare ci diedero una fetta di pane che io misi in tasca. Volevo andare a riposare e vidi i primi letti a castello. Prima di riposarmi volevo mangiare quella benedetta fetta di pane ma, quando misi la mano in tasca mi accorsi che il pane era sparito. Rovesciai la tasca per vedere se fosse bucata ma non lo era. Accanto a me c'era un prigioniero che mi guardava e mangiava. Il suo atteggiamento mi insospettì e così mi gettai su di lui ed iniziai a tastarlo. Aveva un pezzo di pane in tasca e mi chiesi come potesse averne due, se uno lo stava mangiando. Gli strappai il pane e questi non si ribellò perché sapeva perfettamente di avermelo sottratto con destrezza dalla tasca. Mi addormentai perché la stanchezza era più forte di me. Alla sveglia del mattino, sempre alle cinque, mi accorsi che gli zoccoli erano spariti. Guardai in ogni letto ma senza risultato.
Come fare? Se non trovavo un altro paio avrei dovuto camminare scalzo sulla neve e sui sassi, lungo la linea ferroviaria. Mi venne subito un'idea. Un turno era appena arrivato e stava andando a riposare. Vidi un paio di zoccoli, ne approfittai e li rubai. Nessuno se ne accorse, mi era andata bene. Sul momento non guardai se gli zoccoli erano della mia misura. Uscii dalla baracca con gli zoccoli in mano e la paura che qualcuno mi avesse visto. Li provai ma mi accorsi che erano di una misura troppo piccola. Cosa potevo fare? Li misi ugualmente ma in quelle condizioni, con le dita piegate, era difficile camminare senza provare dolore. Stringevo i denti dal male e la colonna si mosse. Dopo vari giorni di lavori forzati, molti di noi incominciarono a cedere: il freddo, la fame e le frustate facevano cadere a terra svenuti i compagni e la SS ci obbligava a raccoglierli per i piedi e le braccia (senza che questi rinvenissero) e a gettarli nelle voragini provocate dai continui bombardamenti. Poi, sotto la minaccia delle armi, dovevamo coprire queste voragini con i nostri compagni vivi: avevano solo la colpa di svenire per il duro lavoro.
Gli zoccoli mi avevano provocato delle vesciche ai piedi. Mi facevano male e sanguinavano, ma cercavo di resistere per non essere seppellito vivo.
Soffiava un vento gelido. Dovevamo maneggiare delle rotaie tutte contorte e sostituirle con delle nuove. Finito il nostro turno di lavoro (dodici ore più altre tre ore di andata e ritorno) ci rimaneva poco per dormire. Arrivati al campo di Gusen, non c'era posto per tutti. Una parte fu costretta a dormire fuori. Ci diedero una coperta a testa ma non era sufficiente: non sapevo se metterla sotto (perché c'era il fango) oppure sopra. Decisi di mettermela sopra per difendermi dal gelo. Gli altri fecero altrettanto. In ogni caso, il freddo ed il fango non ci impedirono di addormentarci.
Per fare la pipì non potevamo muoverci poiché i nostri indumenti erano ghiacciati nel fango. Cosa potevo fare? Presi il recipiente per il caffè e dopo aver fatto i miei bisogni lo misi da parte.
Al mattino la sveglia fu una tragedia: per staccare il fango ghiacciato molti lasciarono attaccati dei lembi di stoffa. Intanto sul lavoro iniziavo a non sentirmi molto bene. Sentivo dolore all'inguine e avevo anche la febbre alta. Ma ero terrorizzato al pensiero che i Tedeschi lo venissero a sapere. A chi stava male loro dicevano: " tu krank, tu kaput forno crematorio". Perciò continuavo a resistere in silenzio, con le lacrime agli occhi. Ritornando al campo pensai di marcare visita, ma mi fu consigliato di non farlo. Non riuscivo a capire il perché. Quella sera riuscii a dormire all'interno della baracca, per terra, con la febbre ed il dolore che aumentavano. Mi guardai l'inguine: avevo una palla grossa come una pesca ma nonostante ciò mi addormentai per la stanchezza.
Il mattino dopo non riuscivo ad alzarmi. Il kapò aveva in mano un grosso bastone ed aveva un braccio solo. Dissi che mi sentivo male e che intendevo marcare visita. Questi si avventò su di me con una tale violenza, colpendomi con forza alla schiena, che rimasi per un attimo senza fiato per il dolore.
"Tu devi andare a lavorare" mi disse in un tedesco masticato malamente (chissà di che nazionalità era!). I miei compagni avevano assistito alla ferocia della scena e a me non rimaneva altro che stringere i denti, rialzarmi e partire con loro verso il lavoro. Fu una giornata che avrei preferito morire piuttosto che soffrire così tanto, non ne potevo più di essere trattato in quel modo.
Ogni giorno molti di noi non ritornavano al campo, rimanevano sepolti nei crateri delle bombe. Una sera, invece di andare a Gusen, ci portarono a piedi in un campo a pochi chilometri da Linz. Questo campo era stato bombardato per sbaglio pochi giorni prima perché al suo fianco c'era una caserma tedesca: invece di colpire quest'ultima colpirono il campo e vi furono molti morti tra i prigionieri. Il campo si chiamava Linz due ed era circondato sia dal filo spinato che da un canale d'acqua. Quando ci presentammo nel piazzale dell'appello, tutti ben allineati, io ero in ultima fila. Eravamo li da molto tempo, fermi ed immobili e non decidevano mai di farci entrare, si sentivano solo le urla dei Tedeschi. Nel frattempo io ero curvo dal dolore: se stavo dritto mi faceva male, sentivo che la febbre aumentava. Non so quanto tempo ci lasciarono fuori. Ad un tratto mi arrivò da dietro un Tedesco che vedendomi ricurvo cominciò a picchiarmi di santa ragione e mi disse che stando curvo non riuscivano a vedermi e facendo la conta ne mancava uno (che ero io). Pensavano che fossi fuggito e così, oltre al male che avevo di mio, mi diedero anche delle frustate. In questo modo, quando tutto fu chiarito, ci mandarono nella baracca. L'indomani non ce la facevo più a lavorare, piangevo dal dolore. Mi venne vicino un giovane Hitleriano e mi disse: "Tu krank, tu forno crematorio, kaput". Continuai a lavorare mentre una delle SS osservava la scena. Quando il giovane si fu allontanato (non aveva più di sedici anni e portava una divisa fiammante) la SS mi si avvicinò e mi disse in italiano di seguirlo. La seguii fino quando mi disse: "Mettiti sotto questo vagone e riposati, io ti starò accanto fino alla fine del turno". Mi dava la schiena rimanendo in piedi e mi disse ancora: "Cerca di resistere che la guerra sta per finire". Mi azzardai a chiedergli come mai indossasse la divisa delle SS. Mi rispose: "Non volevo fare la tua fine così ho dovuto arruolarmi e ho cercato di aiutare gli altri più che potevo".
Ritornando al campo marcai di nuovo visita. La mattina portarono tutti noi malati a Mauthausen per la visita medica. Ci tolsero tutti i vestiti e rimasti nudi ci fecero rimanere fuori, al freddo, con una temperatura di oltre dieci gradi sotto lo zero. Abbiamo atteso il responso della commissione medica per oltre cinque ore: sapevamo che se ci avessero detto di andare a fare la doccia, voleva dire andare a morire nella camera a gas!
Eravamo ridotti a degli scheletri e la camera a gas significava la fine di molte sofferenze. Alcuni di noi avevano il coraggio di gettarsi sul filo spinato ad alta tensione pur di farla finita. Ad un certo punto si presentò un kapò ed un soldato e ci dissero di seguirli. Ci portarono al revire, che voleva dire ospedale. Tirammo tutti un sospiro di sollievo. Non ci fu dato nessun capo di vestiario. Mi separarono dal gruppo e mi portarono in infermeria. Dopo avermi visitato mi misero su un lettino, legandomi mani e piedi con delle cinghie. Mi chiesi cosa pensavano di farmi e guardandoli bene negli occhi mi assomigliavano a dei macellai. Con un batuffolo di cotone imbevuto di tintura mi disinfettarono (riuscivo a seguire tutti i loro movimenti perché non mi avevano coperto gli occhi) e vidi che uno di loro teneva in mano un bisturi. Lo avvicinò all'inguine e con un'incisione netta tagliò: il pus uscì e poi con un paio di forbici entrò nella ferita, andando fino all'osso. Fece uscire tutto il pus, poi con una paletta di legno spalmò una pomata nera. Fasciarono la ferita con della carta (ne avevano un rotolo intero), mi slegarono e mi riportarono nella baracca.
Quello che videro i miei occhi é difficile da descrivere. Ero ridotto molto male, ma quelli che camminavano erano degli scheletri. I letti erano tutti a castello di tre piani. A me assegnarono il primo piano e feci grandi sforzi per potermi sistemare in quel letto: erano già in cinque ed io ero il sesto. Avevamo una coperta in sei ed il materasso, che era riempito con segatura e l'involucro fatto con carta ritorta, aveva uno spessore di cinque centimetri (si sentivano le assi di legno!).
La baracca non aveva finestre, dentro faceva un freddo bestiale e c'erano correnti d'aria dappertutto. Come per tutte le baracche del campo, non esisteva il riscaldamento e a me sembrava di essere nell'inferno di Dante. Questo, per me che lo vedevo e vivevo era veramente un inferno. Solo uno scrittore saprebbe descrivere con tutti i dettagli quei momenti. Io lo descrivo come lo vedevo e lo vivevo, come ne sono capace.
In questo revire (ospedale) eravamo tutti nudi e a letto, essendo stretti come sardine, riuscivamo a scaldarci. I cuscini non esistevano e al loro posto avevamo un'asse di legno. Ogni tanto sentivamo cadere delle gocce ma non era acqua bensì urina che perdevano quelli che morivano. Più di una volta accadeva che mentre si stava mangiando o bevendo il mestolo di minestra che ci davano, qualche goccia cadeva dentro. Nonostante ciò, si continuava a mangiare quella brodaglia, fatta con bietole, carote e raramente qualche buccia di patata. Non era necessario lavare il recipiente: con la fame che avevamo leccavamo il piatto fino a renderlo pulitissimo. Il pane non lo vedevamo più, c'era solo quel mestolo di minestra.
Dentro la baracca si continuava a morire. Tutte le mattine andavo a medicarmi poiché la fasciatura di carta, a causa del pus, cadeva lasciando la ferita esposta alla polvere, ai microbi, allo sterco essiccato e agli sputi.
Nell'infermeria avevo conosciuto un partigiano italiano che era del mio paese. Si chiamava Nino Cainero. Al mio paese non conoscevo tutti perché la mia famiglia era rientrata da poco in Italia. Questi era ridotto malissimo: aveva l'ulcera e la dissenteria. Anche lui era stato operato e lo usavano come cavia. Non stava in piedi e allora lo aiutai ad entrare nella baracca e lo misi a letto. Era anche lui nella mia baracca. Lo lasciai con la promessa di tornare a fare quattro chiacchiere sul movimento partigiano. Volevo sapere cosa era accaduto a mia sorella, che sapevo che era stata prelevata dicendo ai miei che l'avrebbero portata in montagna con me. Questo era quello che mi premeva di sapere.
Anch'io, come gli altri, avevo preso la dissenteria: ogni dieci minuti correvo in bagno a fare la fila come tutti. Chi non riusciva a trattenersi se la faceva addosso, anche perché eravamo ormai senza forze. Il bagno era composto da una botte di legno tagliata a metà, con un'asse di legno come sedile. All'interno della botte non c'era solo lo sterco, ma anche cadaveri che galleggiavano in mezzo a questo liquido verdastro. Questi, mentre si sedevano per fare i bisogni, perdevano i sensi e cadevano dentro senza più uscirvi. Noi non avevamo la forza per aiutarli e ormai non ci facevamo più caso. Sapevamo che avrebbe potuto toccare anche a noi. Non eravamo più umani, camminavamo sopra e in mezzo ai cadaveri come se questi non esistessero.
Un giorno andai a trovare il mio paesano e lo trovai molto giù, come se fosse alla fine. Gli feci qualche domanda su mia sorella, ma questi mi disse che non sapeva niente. Si leggeva nei suoi occhi che mentiva anche perché cercava sempre di cambiare argomento. Me ne andai pieno di rabbia per non essere stato capace di farmi dire la verità. L'indomani ritornai a trovarlo ma lui non c'era più. Chiesi dove fosse andato e mi risposero che era morto e che se volevo potevo vederlo in fondo alla baracca, a fianco del gabinetto, nel mucchio assieme agli altri. Non ci andai, ritornai a letto perché tremavo dal freddo e la dissenteria mi aveva ridotto ad uno scheletro come gli altri.
Chi aveva la dissenteria non riusciva a campare più di cinque giorni, perché la dissenteria ti scioglieva come la fiamma la candela. Vidi poi un deportato che masticava un pezzo di carbone di legno, non sapevo dove l'avesse preso. Questo deportato era straniero. Gli chiesi perché masticasse sempre il carbone e mi disse che, secondo lui, serviva a fermare la dissenteria. Chiesi se ne dava un pezzo anche a me, pensando che si rifiutasse. Invece me lo diede ed iniziai a masticare. I denti scricchiolavano e ogni giorno che passava cercavo di procurarmi un pezzo di carbone. Devo dire che il deportato aveva ragione: la dissenteria si calmò e anche la ferita ormai si era rimarginata. Pochi giorni dopo, però, un altro ascesso mi uscì sull'altra gamba. Mi portarono in infermeria e mi fecero lo stesso trattamento. Ero talmente debole che svenni. Fui risvegliato a suon di schiaffi e facevo fatica a stare in piedi e camminare. Trascinavo i piedi senza piegare le ginocchia. Non vedevo l'ora di finirla, prima lottavo per sopravvivere mentre ora avevo perso la speranza di farcela. Più di una volta invidiavo quelli che non si risvegliavano, sentivo di giorno in giorno le forze calarmi. La fame era molta e con un mestolo al giorno di minestra non ci si riempiva lo stomaco. Che fine aveva fatto la razione di pane che ci davano quando si lavorava? Di giorno e di notte pensavo a quei bei minestroni densi che faceva la mia mamma, a quella bella polenta fumante che metteva al centro del tavolo. E a tutto il resto! Io andavo sempre a togliere la crosta della polenta dal paiolo. Mi piaceva molto e si faceva una volta a testa. Ma tutto questo non bastava a calmare la fame tanto che di giorno giravo attorno alle baracche per cercare dei fili d'erba. Oppure, scavavo alla ricerca di quelle patate che alcune piante sviluppavano sotto terra, munito del manico del cucchiaio. Bisognava farsi largo e pulire le foglie dagli sputi con le mani.
Una notte mi sentii male. Tremavo dal freddo e avevo la febbre molto alta e al mattino seguente mi venne una tosse insistente. Non sapendo dove sputare, strappai un angolo della coperta (non occorreva molta forza, anche lei era marcia) e sputai in quel lembo. Vidi che espettoravo del sangue ma non mi allarmai perché molti si trovavano nelle mie stesse condizioni. Pensai che fosse una bronchite, avevo preso del freddo essendo senza indumenti. In quel momento passò un medico che teneva in mano una grossa siringa, con uno strano ago lungo. Lo fermai e gli feci vedere il lembo della coperta pieno di sangue. Questi si sedette sul mio letto e mi visitò. La diagnosi era una broncopolmonite doppia. Avevo più di quaranta di febbre. Mi guardò scuotendo la testa e mi disse queste testuali parole in italiano, perché lui era veramente un medico italiano. Mi fece vedere quella siringa piena di liquido con quello strano ago e mi disse di non far parola con altri medici di ciò che avevo visto e di rivolgermi solo a lui. Gli domandai il motivo di ciò. Mi rispose "Lo vedrai con i tuoi occhi".
Di fianco al mio letto c'era un russo preso prigioniero al fronte. Mi aveva detto che lavorava alla cava di granito la quale, vista la sua triste fama, era chiamata "scala della morte". Quel nome lo aveva perché, dopo che i prigionieri avevano preparato vari massi (che pesavano dai quaranta ai cinquanta chili) li dovevano portare su questa scala un pezzo ciascuno. Dopo una giornata di massacrante lavoro, chi aveva la forza di salire su quella scala? Li mettevano in fila per quattro o cinque, ai piedi degli zoccoli. Gli scalini erano stretti e traballanti. Se uno di questi disgraziati perdeva l'equilibrio, oppure si piegava perché non ce la faceva più, cadeva trascinando tutti gli altri dietro di lui. Così succedeva il massacro, poi i Tedeschi completavano l'opera.
Questo russo, molto giovane, aveva un buco nel ventre dal quale usciva continuamente del liquido. Vidi il dottore iniettargli il liquido della siringa, poi vidi quel poveretto che rovesciava gli occhi e dalla bocca gli usciva della bava densa con delle bolle. Cercava l'aria perché non riusciva più a respirare. Poco dopo finì di respirare definitivamente. Il medico mi guardò con sguardo minaccioso e se ne andò. Io giravo anche con la broncopolmonite in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti per calmare la fame. Purtroppo fuori dalle baracche non c'era più un filo d'erba.
Una notte sentii del movimento. Mi alzai in silenzio, vidi un piccolo gruppo e lo seguii. Vidi che questi, con il manico del cucchiaio, aprivano l'addome dei cadaveri e asportavano il fegato. Dal ventre usciva un tanfo terribile. Poi prendevano un pezzo di fegato ciascuno e, di nascosto sotto i letti a castello per non farsi vedere, senza tanto pensare, divoravano tutto in fretta per poi tornare a letto. Fecero questo per diverse notti, finché una mattina arrivarono nella baracca i soldati tedeschi con i mitra spianati. Obbligarono tutti ad uscire, anche quelli che non ce la facevano. Io pensai: "Ora ci ammazzano tutti".
Avevano invaso la baracca con urla e cattiveria. Rimanemmo fuori qualche ora, poi ci fecero rientrare e rientrando consegnarono a tutti un cucchiaio di legno. La baracca era tutta sottosopra, i materassi in terra. Rimettemmo a posto ognuno il suo. Ci accorgemmo che i cucchiai di metallo non c'erano più. Ci chiedemmo il perché, forse qualcuno aveva fatto la spia, oppure i Tedeschi se n'erano accorti da soli? Era impossibile perché i cadaveri li trasportavano i prigionieri. Eravamo una decina in tutto a sapere, tutti gli altri erano all'oscuro.
La notte si sentivano i cannoni sparare, il fronte era vicino ma per molti di noi era lontano. Nell'ospedale fecero circolare una voce, che al centro del campo i Tedeschi avevano allestito un ospedale per accogliere i più gravi, per curarli. Ma se non ci davano neppure da mangiare! Il mattino dopo da tutte le cinque baracche furono fatti uscire tutti gli ammalati. Alcuni ce la facevano ma molti non ne avevano la forza e pregavano i compagni di aiutarli. Ci misero tutti in fila, eravamo degli scheletri (ci mancava solo di chiudere gli occhi). Dovevamo passare davanti alla commissione che era composta da un medico e da ufficiali tedeschi. Ogni baracca aveva la sua commissione.
La selezione incominciò. La fila di destra era destinata al campo e la sinistra a rimanere, ma noi eravamo convinti che la fila di destra andava nel nuovo ospedale del campo, e ci andavamo per essere curati e per stare meglio. Quando vidi che il medico era l'Italiano, ero sicuro che mi avrebbe messo nella fila di destra. Invece mi spedì in quella di sinistra e dalla rabbia mi venne da piangere, anche se non mi rimanevano più nemmeno le lacrime. Terminate le selezioni ci fecero rientrare nelle baracche, mentre gli altri li portarono su al campo, che distava un centinaio di metri. Verso sera rientrò uno di quelli che era stato selezionato per il campo e ci raccontò tutto quello che era successo. Mentre raccontava tremava tutto: ci disse che il gruppo di destra, circa duemila detenuti che avevano lasciato l'ospedale, erano andati tutti alla camera a gas. Non so come, lui solo riuscì a salvarsi.
Mi tornò in mente il dottore, mi aveva salvato la vita. Lui sapeva cosa mi aspettava e mi aveva salvato la vita. Cercò di salvarne il più possibile, senza insospettire i Tedeschi. I Tedeschi ne pensavano sempre delle nuove, avevano la collaborazione dei kapò e di qualche deportato (questi erano i maggiori criminali). Sentivo che non ce la facevo più, mi sporcavo addosso senza accorgermene, non avevo la forza di trattenermi. Si camminava ormai nello sterco dentro la baracca. Ogni tanto andavo a fare qualche chiacchiera con un francese che accanto al suo letto aveva un bel mucchio di cadaveri in attesa di essere portati via. Ma prima di portarli via, ad ognuno aprivano la bocca e con uno strano attrezzo guardavano se c'erano denti in metalli preziosi. A quelli che li avevano venivano strappati con una pinza e messi in una cassetta metallica. Per tutto il giorno portavano via cadaveri, non si contavano più e non li portavano molto lontano ma li ammucchiavano fuori dalle baracche, perché non sapevano più dove metterli. Ogni giorno, poi, li irroravano con un liquido usando le pompe che i nostri contadini usavano per irrorare le viti con il solfato di rame.
Una mattina entrarono un Tedesco ed un kapò gridando che l'indomani ai Francesi sarebbe stato consegnato un pacco della Croce Rossa: li avrebbero chiamati non per nome, ma per numero e senza numero niente pacco. Andai subito dal Francese dicendogli la bella notizia, ma questi non aveva neanche il fiato per rispondermi. L'indomani tornai a trovarlo, aveva la bava alla bocca e gli occhi spalancati, non dava più segni di vita. Mi guardai intorno e, senza pensarci gli sfilai dal polso la sua targhetta con il numero e la infilai al mio. Tornai a letto aspettando la distribuzione dei pacchi. Quando avvenne la distribuzione, aspettai che chiamassero il mio numero. Quando lo chiamarono, andai a ritirare il pacco e, arrivato alla mia branda, lo aprii subito. Centinaia di occhi erano puntati su di me. Dentro il pacco c'erano due scatolette di carne, gallette e sigarette. Per prima cosa, mangiai le due scatolette di carne, il resto lo tenevo sempre stretto. Quel giorno però fu terribile perché, finito di mangiare, mi venne un terribile mal di stomaco e di pancia che mi rotolavo per terra dai forti dolori. In più dovevo fare attenzione che non mi derubassero di quello che mi era rimasto (le sigarette le avevo distribuite). Il mattino seguente, il kapò ed un Tedesco entrarono nella baracca facendo un sacco di confusione. Dicevano che era stato ritirato un pacco da uno che non era francese e che il responsabile era pregato di riconsegnarlo. Poi iniziarono a passare in mezzo ai letti a castello ed io, vedendomi in pericolo, mi nascosi sotto i letti, rimanendovi fino quando mi resi conto che il pericolo era passato.
Sapevo che con quel gesto avevo rischiato di morire impiccato oppure con il colpo alla nuca o ancora di venire trasportato legato in piedi sopra ad un carretto tirato dai deportati, accompagnato da un complesso che suonava. Sapevo che dentro al campo vigeva una legge che non perdonava chi rubava, truffava o tentava la fuga, e che veniva punito con quel sistema. Ma nel caos del momento, visto che il fronte era sempre più vicino, lasciarono passare. Dopo due giorni radunarono tutti i francesi e questa volta non mi presentai anche se avevo al polso il numero francese. Fuori c'erano due automezzi con i contrassegni della Croce Rossa. Consegnarono a ciascuno un pacco, li fecero salire sui camion e quando furono pieni la distribuzione finì ed i mezzi partirono. La voce che circolava al campo era che questi venivano trasportati nei sanatori in Svizzera. Ma perché, pensai, perché distribuivano i pacchi, li ricoveravano in Svizzera? Perché solo i francesi e noi niente? Il viavai durò alcuni giorni finché non ci furono più francesi. Io ne conoscevo qualcuno perché abitavano nello stesso paese dove eravamo emigrati. C'eravamo promessi che, se fossimo sopravvissuti, ci saremmo fatti vivi per posta. Ma io sentivo che non ce l'avrei fatta. La mattina che non dimenticherò mai fu l'arrivo di due carri armati Americani con una squadra di uomini. Dei Tedeschi non c'era più l'ombra, dove erano finiti? Io guardavo dalla finestra e vedevo gli americani fermi alla porta d'ingresso. Cercai di andarci incontro ma caddi. Non avevo la forza di alzarmi e attesi fino a quando qualcuno non mi aiutò. Ritornai nella branda, non sapevo quello che accadeva fuori. Gli altri mi dicevano che gli americani si erano ritirati e che eravamo liberi, ma che nessun prigioniero doveva uscire dal campo per paura delle rappresaglie verso gli austriaci.
Prima di lasciare il campo armarono alcuni prigionieri e li misero di guardia al posto dei Tedeschi. I portoni si chiusero ed iniziò la razzia ai magazzini tedeschi, ma ci fu una grande delusione perché questi erano completamente vuoti. Eravamo rimasti soli e senza niente da mangiare. Questa situazione durò per cinque giorni, fino a quando vedemmo entrare il grosso dell'Armata americana. Durante quei cinque giorni ci fu una moria maggiore di quando eravamo prigionieri dei Tedeschi. Quando arrivò il contingente alleato, per prima cosa prese tutti gli ammalati gravi e li ricoverò nell'ospedale militare. Nell'ospedale c'erano delle tende molto grandi con il pavimento a parquet. In fondo c'era l'infermeria. Io, assieme ad altri che si trovavano nelle mie stesse condizioni, venimmo caricati su delle lettighe e ricoverati. Il nostro letto era una lettiga. Eravamo circa una quarantina e ci davano da mangiare con il contagocce, per evitare di causarci dei danni: alcuni sono morti rischiando a mangiare di più. Avevo ancora la febbre e poco appetito. Una mattina mi caricarono sopra un'autoambulanza guidata da un soldato di colore. Mi portarono in un altro ospedale, molto attrezzato, e mi fecero delle radiografie. Non sapevo nemmeno cosa fossero, era la prima volta. Mi fecero aspettare per l'esito. Quando questo arrivò mi misero al collo una busta con su scritto il mio nome, cognome e nazionalità. Sotto c'era scritto "TBC attivo bilaterale. Non sapevo cosa fosse la TBC, tornai in infermeria. Gli assistenti medici lessero l'esito ma parlavano in americano, per cui non capivo niente di quelle che dicevano. Non riuscivo nemmeno a capire perché questi avessero una specie di maschera che copriva il naso e la bocca. Vicino a me c'era un piemontese, era tutto gonfio e stava male. Gli chiesi se sapesse il significato della scritta che portavo al collo e questo mi rispose "Sei ammalato di tisi, sei tubercoloso". Rimasi senza fiato, come se avessi ricevuto un pugno allo stomaco, in quel momento avrei preferito essere morto. Io, che da bambino avevo il terrore di questa malattia, in Francia, per non passare vicino alla casa di un nostro vicino ammalato di TBC, cambiavo strada oppure mi mettevo davanti alla bocca un fazzoletto, tanto mi avevano terrorizzato.
Ora non me la sentivo di ritornare a casa, avevo paura di non essere accettato, anche per l'ignoranza dei paesani. Vedendomi con le lacrime agli occhi, il piemontese mi disse: "Sai, ora questa malattia si può curare con delle iniezioni di calcio". Le sue parole mi tranquillizzarono, riuscì a convincermi e mi calmai. Lui invece stava sempre peggio, mi raccontava che era stato fatto prigioniero dai Tedeschi in montagna e che era in possesso di documenti che solo lui sapevano dove si trovavano. Erano documenti della famiglia reale ed erano nascosti in montagna. Io lo ascoltavo ma senza crederci. Quel ragazzo era molto intelligente, si vedeva che aveva studiato ed aveva una certa cultura oltre a parlare molto bene l'americano. Un giorno il suo stato di salute peggiorò. Chiamò l'ufficiale medico pregandolo di salvarlo poiché era in possesso di quei documenti. Arrivarono altri ufficiali, parlarono con lui chiedendogli dove si trovassero i documenti della casa reale. "Salvatemi", rispose, "e io ve lo dirò". Terminato il colloquio, arrivò un'équipe medica con dei flaconi di plasma. Ne applicavano uno dietro l'altro ed era sempre sotto osservazione. Ma fu tutto inutile, morì senza parlare. Non so che malattia avesse, vedevo che si gonfiava sempre di più.
Gli infermieri mi davano delle pastiglie e alla sera mi facevano un'iniezione di morfina al braccio poiché non avevo più sedere. Dopo pochi giorni mi venne un ascesso al braccio, mi volevano operare ma io non volevo. Soffrivo ma non cedevo perché avevo sofferto troppo con i Tedeschi.
Dopo quaranta giorni ci spostarono nelle baracche che a suo tempo erano state occupate dalle truppe tedesche. C'erano le brande con dei materassi soffici ed anche i cuscini. Per curiosità scucii il materasso e vidi delle trecce di capelli.
Eravamo isolati dal resto del campo. La nostra zona era infetta e non potevamo avere contatti con gli altri deportati. Nella nostra zona lavoravano giorno e notte per realizzare delle fosse grandi e profonde, che servivano a seppellire i cadaveri per evitare epidemie (alcuni erano in decomposizione). Gli scavi continuarono per due mesi.
Ogni giorno che passava cercavo di rafforzare le gambe, me le trascinavo dietro ma mi sforzavo poiché non vedevo l'ora di essere rimpatriato, ma mi ero illuso. Venne una commissione dal Vaticano e si accordarono perché i primi ad essere rimpatriati fossero gli ammalati. Ma i giorni passavano e non si vedeva niente. Un pomeriggio mi alzai e mi allontanai per un centinaio di metri. Per me era una grande conquista. Fiancheggiai la muraglia e al termine di essa vidi una garitta con dentro dei soldati alleati che controllavano che nessuno oltrepassasse il filo spinato. Il filo era stato sistemato lì dai Tedeschi, era composto da rotoli la cui larghezza era circa di tre o quattro metri. Mentre continuavo a trascinarmi dietro le gambe sotto lo sguardo dei soldati, mi sentii chiamare da quelli che si trovavano al di là del filo spinato: uno di loro si rivolse a me col mio nome da battaglia, e guardandomi mi chiese come mi fossi ridotto. Io pensai "Come avrà fatto a riconoscermi, dato che nemmeno io mi riconosco se mi vedo nello specchio?" Mi domandò anche come mai mi trovassi separato dagli altri, ma io non gli dissi il motivo, non gli dissi che mi trovavo in una zona infetta, e che non volevano che avessimo contatti con quelli oltre il filo spinato.
Mi disse che l'indomani mattina sarebbero rientrati in Italia, ma io gli risposi che non poteva essere, poiché era stato promesso a noi ammalati che saremmo stati i primi ad essere rimpatriati. Mi disse "Questa sera alle sette ci sarà il cambio della guardia, e il posto resterà incustodito. Noi ci facciamo trovare qui e ti apriamo un passaggio in mezzo al filo spinato." Così, prima delle sette, lasciai la branda, mi misi in tasca un po' di pane e presi una coperta. Facevo molta fatica a portarmela dietro, ma strinsi i denti e arrivai sul posto: le guardie vigilavano ancora. Di lì a poco, lasciarono il posto incustodito. Vidi che i miei amici, aiutandosi con assi di legno, mi stavano aprendo un varco in mezzo al filo spinato. Ci passai a fatica, rendendomi conto che senza di loro non ci sarei mai riuscito.
Avevano paura del ritorno delle guardie, così fecero sparire le assi di legno e mi fecero entrare dentro a una baracca stracolma di prigionieri, al cui interno si trovava anche una commissione. Tutti quanti avevano in mano un lasciapassare per il rimpatrio e davanti a me c'erano quattro deportati che stavano litigando, perché era rimasto un solo "Ausweis" e noi eravamo in cinque. Io ero un intruso, e sapevo di non avere alcun diritto. Un uomo della commissione diede a ciascuno un pezzo di carta e una matita, dicendoci di scrivere la data dell'arrivo al campo e il numero di matricola. Poi raccolse tutto, controllò le date: la fortuna volle che io fossi quello che era arrivato prima di tutti gli altri, così l'Ausweis venne consegnato a me. Quella notte non riuscii a dormire, e al mattino arrivarono alcuni camion guidati da prigionieri tedeschi che mi aiutarono a salire. Quando fummo tutti a bordo e mentre ci allontanavamo, guardammo per l'ultima volta i nostri sfortunati compagni che erano stati sepolti e che ancora venivano seppelliti. Tutti quanti avevamo gli occhi umidi. A terra era rimasta una ragazza che non aveva voluto rimpatriare per troppa vergogna: per salvarsi la vita, aveva avuto un figlio da un SS tedesco. Nella sua sfortuna, fu anche fortunata, perché tutte le donne incinte venivano passate alla camera a gas, lei non partì con noi.
I camion attraversarono la periferia di Linz: potevamo intravedere dietro alle finestre delle case la gente che ci salutava agitando bandierine. Pensai che era la stessa gente che pochi mesi prima ci aveva sputato addosso e che ci aveva maltrattato al nostro passaggio. Arrivati alla stazione di Linz, trovammo ad attenderci un treno merci, forse erano addirittura gli stessi vagoni dell'arrivo, ma senza filo spinato ai finestrini. I carri non vennero sigillati né chiusi, ma restarono aperti e su ognuno c'era un soldato americano armato di un fucile. Guardai la stazione, quella stessa stazione dove tanti erano morti sulle rotaie, tanti compagni sepolti vivi. Nel nostro vagone si trovavano anche deportati militari e civili, che però non erano ridotti come noi che venivamo dai campi di sterminio. Il treno ripartì, e attraversammo boschi, campagne verdi, campi ben curati: mi sembrava un sogno, e il mio pensiero corse a casa mia, a come mi avrebbero accolto i miei familiari. Verso mezzogiorno ci fermammo in mezzo alla campagna. Si vedeva qualche casa di contadini, e davanti a noi si stendeva un campo di patate che avevano cominciato da poco a germogliare. Alla partenza ci avevano dato una scatoletta di fagioli e qualche galletta, ma non ne potevamo più di fagioli. Così, tutti quelli che si sentivano abbastanza in forze scesero giù dai vagoni e cominciarono a scavare nel campo cercando qualcosa da mangiare. Ci videro alcune ragazze che andarono subito a chiamare rinforzi e di lì a poco si presentarono molte persone, per lo più anziani, armati di attrezzi agricoli come falci e forche, che cominciarono a gridare concitatamente. I soldati americani circondarono il treno e spararono in aria, obbligando tutti a risalire sui vagoni. Fu allora che nel mio vagone accadde qualcosa che non mi aspettavo: erano saliti alcuni ragazzi austriaci ai quali inizialmente nessuno aveva fatto caso. Improvvisamente, cominciarono a sputarci addosso e ad insultarci, e a chiamarci traditori. Quella fu la molla che scatenò il putiferio: tutto il vagone si scagliò sui ragazzi, ma intervennero immediatamente i soldati che a stento riuscirono a sottrarli a quell'esplosione di rabbia e diedero ordine ai macchinisti di far muovere il treno, che partì quasi immediatamente. Ci accorgemmo così che quei giovani erano usciti da un vagone letto fermo su un binario morto: lì dentro ci aveva abitato qualcuno, probabilmente famiglie che avevano avuto la casa distrutta dai bombardamenti.
Verso sera arrivammo in un paese, e lì il treno si fermò. Fummo condotti in un campo di concentramento vuoto, e io andai subito a cercare una branda per riposarmi. Il cibo non mi interessava molto, avevo sempre la febbre e dalle ferite che avevo sulle braccia usciva un liquido purulento. Cercavo di pulirmi con quello che trovavo e avevo sempre paura che gli altri se ne accorgessero: avevo paura di essere operato. Mi ero appena sdraiato quando i miei amici mi vennero a chiamare, dicendomi di andare a vedere chi ci fosse là fuori.
"C'è il kapò di Gusen" dicevano " quello che ti ha rotto la schiena a suon di botte, lo stanno picchiando!" Mi feci aiutare ad alzarmi, e insieme con loro mi incamminai verso la folla che lo aveva circondato.
Quando arrivai era troppo tardi: il kapò era già morto sotto i colpi degli zoccoli. Accanto a lui c'erano due valigie con indumenti, oggetti d'oro e protesi dentarie.
Così tornai alla branda, e più tardi qualcuno mi portò un piatto di minestra. Pensai "Finalmente un piatto italiano", ma quando misi in bocca la prima cucchiaiata mi venne da vomitare: l'avevano zuccherata, ed era immangiabile.
Al mattino dentro la baracca arrivò un'équipe medica, e ci fecero passare tutti di lì. Con una pompa, ci spruzzarono addosso una polvere bianca che a sentire loro doveva servire per disinfettarci. Non ci fecero spogliare, ma ci infilarono un tubo attraverso le fessure dei vestiti. Io indossavo ancora la divisa da internato. Una volta terminate queste operazioni, ci fecero risalire sui vagoni e partimmo. Quando arrivammo al confine italiano, il treno rallentò e sembrò che si volesse addirittura fermare; molti scesero dai vagoni con le lacrime agli occhi e s'inginocchiarono a baciare la terra che non speravano più di rivedere. Percorremmo ancora qualche chilometro e arrivammo a Merano: c'era tanta gente ad aspettarci, per chiederci da che campo venissimo, e per mostrarci le fotografie dei lori cari, con la speranza che li avessimo visti. I soldati ci fecero salire su alcuni camion e ci portarono ad un centro di raccolta. Là ci fecero scendere e ci ordinarono di metterci in fila. Consegnarono ad ognuno di noi dei vestiti, ma quando arrivò il mio turno i vestiti erano finiti, così mi accontentai di una camicia. Era ormai sera quando mi dissero che tutti i malati dovevano presentarsi in infermeria; io, che avevo nascosto la busta che portavo al collo e nella quale c'era scritta la mia diagnosi, mi appartai in un angolo perché non mi sentivo molto bene. Passò di lì una crocerossina che con gentilezza e molta pazienza, mi convinse a seguirla in infermeria.
Mi visitarono, mi misurarono la febbre che ormai non mi abbandonava più, e tirai fuori la busta che avevo nascosto. La lessero, e mi portarono in un letto, un vero letto con lenzuola bianche: mi sembrava un sogno. Mi diedero qualcosa di caldo da mettere nello stomaco, mi fecero una puntura di morfina e mi addormentai.
Il mattino seguente mi svegliai sentendo una voce che diceva "Quelli di Udine si preparino, fuori ci sono dei pullman che aspettano". Mi vestii velocemente e, accompagnato dalla crocerossina, salii sul pullman col cuore che mi batteva forte. Non sentivo più nemmeno il dolore alle braccia, tanto era forte il pensiero di casa mia.
I pullman partirono, fermandosi ogni tanto e facendoci scendere in punti precisi dove erano stati organizzati dei posti di ristoro. In uno di questi punti mangiai di gusto un piatto di minestrone che mi ricordò quello che faceva mia madre, mentre durante le altre fermate scesi per pulirmi e per andare al bagno. Non reggevo il pullman, e ogni volta che mangiavo qualcosa mi vomitavo addosso. Così, mentre gli altri si rifocillavano, io dicevo che non avevo fame anche se il mio stomaco diceva il contrario. Ad ogni fermata c'era gente che veniva a mostrarci fotografie di parenti.
Verso sera arrivammo a Pordenone, e anche lì io non scesi. Salì una crocerossina, mi diede un'occhiata e vedendo che dalle braccia mi colava il pus, mi pregò di seguirla. Io lo feci volentieri: era una bella ragazza, e mi pulì, mi curò e mi fece delle fasciature. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii trattato da essere umano.
Arrivati a Udine, noi ammalati venimmo ricoverati, non in un Ospedale ma in una scuola. Appena entrati ci vennero incontro una suora e un medico, il dottor Bellis, un uomo alto e con i baffi. Ci chiesero se eravamo stati disinfettati e rispondemmo di sì. Uno alla volta, poi, dichiarammo le nostre generalità. Io pregai il dottore di non avvisare la mia famiglia, o perlomeno di farlo il più tardi possibile, perché non volevo che mi vedessero in quelle condizioni. Ci assegnarono poi dei letti, ma quella notte dormii poco, a causa del continuo viavai degli infermieri che venivano chiamati dagli ammalati: c'era chi tossiva e sembrava soffocarsi con il suo stesso catarro, e chi aveva l'emotisi. Eravamo quasi tutti all'ultimo stadio della malattia, e alcuni di noi erano rientrati solo per morire nel proprio paese.
Il dottore mi aveva messo sopra al letto una zanzariera, per evitare che le mosse si posassero sopra le mie ferite. Dopo otto giorni cominciai a sentirmi un po'' meglio. Una mattina mi sentii scuotere, aprii gli occhi e sopra di me vidi un infermiere che mi stava dicendo che c'era un signore insieme al dottore, che parlavano di me, che il medico gli stava dicendo che ero suo figlio ma lui non voleva crederci. Il medico mostrò la cartella clinica a mio padre, e su quella c'era scritto il mio nome, Cosmar Franco. Mio padre tirò fuori dalla tasca una lettera della Croce Rossa, nella quale gli si diceva che suo figlio era morto nel campo di Mauthausen. Mi domandai "Sono così malridotto che mio padre non mi riconosce più?"
Pesavo ventinove chili, ero ridotto pelle e ossa, ma mi alzai e tirai da parte la zanzariera. Li sentivo parlare nel corridoio e mi affacciai alla porta, vedendo mio padre, di schiena, mentre parlava col medico. Presi un po' di fiato e lo chiamai, mio padre si voltò e rimase a guardarmi senza dire una parola. Dopo qualche attimo disse solo "Sei tu? Sei proprio tu?". Io non seppi mai quello che aveva provato in quel momento, di certo doveva aver avuto un cuore molto forte per resistere ad un'emozione di quel genere.
Da quel giorno, vennero a trovarmi due o tre volte al giorno, portandomi da mangiare anche se non ne avevo alcun bisogno, perché all'ospedale non mi facevano mancare niente. Veniva anche qualche paesano a farmi visita, preso dalla curiosità. Un giorno spiegai a mio padre come mai avesse ricevuto l'avviso della mia morte, e gli raccontai dello scambio della mia piastrina numero 126691 con quella di un francese che era in coma e stava morendo. Era accaduto una mattina in cui sarebbe dovuto andare a ritirare il pacco della C.R.I., io sapevo che rischiavo la morte, ma in quel momento non ci avevo pensato. Quando avevano chiamato il suo numero, mi ero presentato io, gli addetti mi avevano controllato e poi mi avevano consegnato il pacco. Ecco perché, dopo la liberazione da parte degli alleati, avevano trovato le targhe sui cadaveri: i Tedeschi non erano riusciti a bruciare i morti e a metterli nelle fosse comuni, avevano avuto fretta di eliminarli.
Passarono alcuni mesi, e mio padre, vedendo che mi ero ripreso, chiese al medico quando mi avrebbero mandato a casa, ma la risposta fu come un colpo di frusta. Il dottore gli disse "Ma lei lo sa cos'ha suo figlio?" Mio padre disse che no, non lo sapeva, ma che mi vedeva stare meglio, a parte la tosse.
"Lei deve ringraziare il Padre Eterno se suo figlio é tornato, é ammalato di tubercolosi e nello stato in cui si trova andrà via di qui fra qualche anno, se tutto va bene, non di certo fra qualche mese". Mio padre rimase muto.
Una mattina lo vidi molto triste: era andato a Cividale a fare una denuncia perché aveva saputo da un bracconiere che mia sorella era stata uccisa dai partigiani del paese; l'avevano fucilata nei prati di Ipplis.
Passarono i mesi, e i mesi diventarono anni: mi trovavo in sanatorio già da cinque anni. Mi dimisero in maggio, dicendomi che ero clinicamente guarito, ma non era cosi. Dopo tre mesi, venni ricoverato di nuovo per altri tre anni.
Girai parecchi sanatori dell'Italia settentrionale, entrando e uscendo più volte. Il pellegrinaggio finì nel 1970, dopo aver subito vari interventi chirurgici. Devo ringraziare il prof. Nobile di Gaiato, che mi consigliò di andare a Roma all'Ospedale Forlanini, poiché solo lì erano in grado di risolvere i miei problemi polmonari, che erano molto gravi, dato che avevo un'emorragia interna che nessuno riusciva a fermare. Arrivai a Roma nell'agosto del 1969, ma la chirurgia era chiusa perché con il caldo non operavano. Appena il medico vide le mie condizioni, mi inviò subito alla chirurgia, mi fece fare molti esami preparatori e in settembre mi sottoposero al primo intervento di decorticazione pleurica per fermare l'emorragia. Per un mese restai con i tubi di drenaggio con aspirazione, per costringere il polmone ad espandersi. Ma non ci fu nulla da fare, ebbi una complicazione a causa di un drenaggio che mi perforò lo stomaco e l'ernia diaframmatica, ebbi un'altra emorragia. Al mio capezzale c'era mia moglie, che non mi abbandonava mai. Si accorsero immediatamente dell'aggravarsi delle mie condizioni e del fatto che avevo perso i sensi. Quando mi ripresi, avevo flebo dappertutto. Tutto il reparto radiologico si mise a disposizione, e alla sera avvertirono l'équipe di chirurgia di presentarsi per un intervento urgente. Dovetti aspettare fino alle sette del mattino seguente, e uscii dalla sala operatoria nel pomeriggio. Per questi interventi é stato fatto arrivare sangue da Bologna, e la fortuna ha voluto che mio cognato fosse un donatore. Sono stati mobilitati anche donatori di Udine. Non ero in grado di contare quanti flaconi mi hanno trasfuso, addirittura la polizia ferroviaria era stata incaricata, alla fermata del treno, di cambiare i contenitori di ghiaccio nella borsa che conteneva i flaconi. A Roma era impossibile trovare sangue anche al mercato nero, e non ci si poteva fidare. Mia moglie rimase al mio capezzale per tre mesi. L'intervento che avevo subito non dava alcuna certezza di sopravvivenza, e io stesso dopo una ventina di giorni pensai che tutto fosse finito. I medici passavano ogni mattina a visitarmi dicendomi che stavo bene, e con un bisturi mi tagliavano la carne bruciata dal bisturi elettrico. Io non sentivo niente, per me quella parte era come morta, non si richiudeva. Passò poi il professor De Paola, che fu per me come un inviato divino. Ci riferì che venivano praticati degli interventi in fase sperimentale, ma solo lui riusciva a portarli a termine con successo. In vari sanatori questi interventi venivano fatti, ma con mortalità molto alta. Addirittura al Pizzardi di Bologna morivano nove pazienti su dieci, e mia moglie non volle farmi operare. Arrivò subito un'altra mazzata: bisognava fare un altro intervento perché il polmone non si espandeva e così era necessario fare una plastica di copertura. Non so quante costole mi tagliarono, so solo che avevo dei dolori tremendi al torace ed ero costretto a prendere continuamente calmanti. Rifiutai di prendere morfina perché non volevo assuefarmi. Ci fu poi il problema della cicatrice che non si chiudeva, la carne era talmente tirata che il taglio rimaneva aperto. I medici mi dissero di mettermi con la schiena al sole e, piano piano, cominciai a migliorare. A Natale aiutai con grande fatica a fare il presepe: non riuscivo ancora a muovere il braccio sinistro senza procurarmi dolore alla ferita. Mi mandarono a casa in permesso, con l'impegno che sarei rientrato un giorno prima della Befana. Superai la visita e i medici constatarono che tutto andava bene. Mi chiesero se mi avrebbe fatto piacere essere dimesso, a me, che non vedevo l'ora. Così, lasciai il sanatorio il 7 gennaio 1970, dopo venticinque anni di ricoveri finalmente tornavo a casa, con la speranza di non avere più bisogno di ospedali.
Ma questo non fu l'unico problema che dovetti affrontare: nel 1950 ero tornato a casa, e oltre alla tubercolosi che già avevo, mi venne anche l'epatite. L'ultima volta che vidi mio padre stavo molto male, e dalla bocca mi usciva la bile; vedendomi in quelle condizioni, mio padre era andato dal medico ad informarsi sul mio stato di salute: avevo assunto un colorito verdastro, erano peggiorate anche le mie condizioni polmonari, ed il medico disse a mio padre che non c'era più niente da fare. Mio padre morì all'ospedale di Udine con un trauma cranico che si era procurato al lavoro, ma la mia ora non era ancora suonata, così superai l'epatite. Mentre mi trovavo a casa in permesso venne a trovarmi un ex-partigiano mio compaesano per chiedermi come stessi. Galdino Pontoni era una persona per la quale provavo un'istintiva antipatia, e quando lo vidi, ebbi una folgorazione improvvisa: mi alzai dal letto e presi da un cassetto del comodino un trincetto che mio padre adoperava per aggiustare le scarpe. Lo minacciai puntandoglielo con decisione allo stomaco, e lo colsi di sorpresa a tal punto che cominciò a chiedermi che cosa avessi intenzione di fare. Gli chiesi di dirmi chi fosse stato ad uccidere mia sorella. Lui mi rispose guardandomi negli occhi, con voce tremante, che quello che l'aveva fatta uccidere era mio cognato Toni Dinoni. Non gli credetti, ma lui giurò che quella era la verità, e lo lasciai andare.
Riflettei e feci indagini per conto mio ma, quando la storia venne a galla, mio cognato morì. Nell'estate del 1943 mia sorella e la moglie di mio cognato se ne andarono in Germania a lavorare, lasciando a mia madre i cinque figli di Toni. Lui allora era nell'arma dei Carabinieri. I bambini furono messi in collegio, e l'anno dopo, quando io ero già in montagna con i partigiani, mia sorella ritornò a casa dalla Germania. I miei genitori mi raccontarono che mia sorella era arrivata da poche ore, quando due compaesani la vennero a prendere obbligandola a seguirli. Mio padre si oppose e chiese loro dove la stessero portando. Gli risposero "In montagna, da suo fratello", così mio padre li lasciò fare. Da quel giorno nessuno seppe più nulla di lei fino a quando il bracconiere raccontò tutto a mio padre, raccomandandogli di non parlarne con nessuno perché aveva paura di una vendetta. Nessuno in paese poteva sapere che mia sorella fosse tornata, solo mio cognato, dato che abitava di fianco a noi. Così, mise in atto il suo piano per vendicarsi.
Ma chi erano quelli che si facevano chiamare partigiani subito dopo la liberazione? Da quello che ho capito, erano solo una banda di criminali, senza controllo. Non potevano essere altro, a giudicare da quello che avevano fatto nel mio paese, e per coprire l'omicidio si erano proclamati partigiani. Sono questi e i gruppi come questi che si sono fatti odiare dai friulani, mentre i veri combattenti morivano sui monti soffrendo il freddo e la fame, per non parlare di quelli che sono morti nei campi di sterminio, cadendo per una causa giusta e per un giusto ideale.
Molti di questi combattenti, una volta finita la guerra, non riuscivano a trovare un'occupazione perché venivano bollati come comunisti, e a quell'epoca c'era un papa fascista che aveva scomunicato i comunisti.
Tra i partigiani di comunisti ce n'erano pochissimi, nel mio battaglione erano solo quattro; anche i preti che combattevano con noi erano comunisti, e molti ne sono morti nei campi di concentramento.

 

 

mostre e iniziative

Anne Frank - Una storia attuale

Terezin - disegni e poesie dei bambini del campo di sterminio

Non avevamo ancora cominciato a vivere - voci e immagini dai campi di concentramento per giovani di Moringen e Uckermark

 

La Rosa bianca - Studenti contro il nazismo

 

I ragazzi ebrei di Villa Emma a Nonantola

 

La Memoria per un futuro di Pace

A scuola col duce

Qui non ho visto nessuna farfalla

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...Festa d'aprile!

La storia cantata - Parole e musiche della Resistenza

25 aprile 2003
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Teatro, convegno e musica per ricordare la Liberazione

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I canti del '900:

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