Franco Cosmar |
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DUE
STORIE, UNA SOLA VITA |
storia
di un partigiano friulano, dai monti a Mauthausen |
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Nel 1935, insieme ai miei fratelli,
lasciammo il paese in cui eravamo nati e raggiungemmo mio padre e il mio fratello più
anziano che erano emigrati in Francia per ragioni politiche. Eravamo sette fratelli
viventi su quattordici nati, e al paese restò soltanto mia sorella Ida, sposata con un
Carabiniere. In Francia io e i miei fratelli abbiamo frequentato la scuola francese,
mentre i più grandi avevano trovato lavoro. Stavamo bene.
Poi, nel 1939, venne la guerra, con l'occupazione tedesca. Nel 1938 mio fratello Eligio si
era arruolato come volontario ed era andato a combattere in Algeria con l'esercito
francese; era un simpatizzante del generale De Gaulle.
Nell'aprile del 1943 mio padre, preso dalla nostalgia per la sua terra, decise di
ritornare in Italia, e noi, che pure eravamo tutti contrari, non riuscimmo a fargli
cambiare idea, nonostante che in Francia stessimo bene perché i tedeschi non ci davano
fastidio. I maqui (partigiani francesi) combattevano, e le rappresaglie erano frequenti,
come pure le deportazioni, ma a noi non fu mai fatto del male, forse perché eravamo
italiani, e quindi alleati.
Restammo molto delusi al nostro ritorno in Italia, nel nostro paese natale; in Friuli
regnava la miseria, stavano bene solo i piccoli contadini, mentre per gli operai era molto
difficile trovare un lavoro fisso. Mio padre mi trovò un'occupazione a tempo pieno presso
una famiglia di mezzadri ai casali di Orzano, e così mi restava ben poco tempo per andare
a casa, che pure era solo a due chilometri da lì. Ero impegnato perfino la domenica.
Anche mio padre trovò lavoro come bracciante, mentre tutti gli altri fratelli erano senza
lavoro. Non perdonerò mai mio padre di averci trascinati in Italia. Oltre a tutto questo,
c'era pure il problema che non sapevo parlare friulano né l'italiano, così i ragazzi
della mia età mi prendevano in giro, facendomi sentire una forte nostalgia della Francia.
Passarono i mesi: mia sorella, la più vecchia, abitava accanto a noi, suo marito -il
carabiniere- era sempre sotto le armi, e di tanto in tanto veniva a casa in permesso.
L'otto settembre ci fu la disfatta del governo fascista: con l'esercito allo sbando tutti
i soldati fuggirono dalle caserme e, per sfuggire ai tedeschi e ai fascisti che davano
loro la caccia, si rifugiarono dalle famiglie a chiedere abiti civili, abbandonando la
divisa militare. Quando un soldato veniva preso, era qualificato come disertore, arrestato
e poi mandato in Germania; addirittura, molti ufficiali chiudevano i soldati nelle caserme
per poi consegnarli ai Tedeschi. Nelle campagne e nei prati si trovavano disseminate le
divise e le armi abbandonate.
In ogni paese era stato organizzato un posto di blocco, e in più venivano rastrellate le
campagne per cercare le armi abbandonate lasciate dai militari in fuga. Il nostro paese fu
occupato dai Tedeschi, che imposero il coprifuoco. Villa Tandoia, una villa che
apparteneva a un gerarca fascista, fu utilizzata come comando. Nella casa si trovavano
anche dei depositi di materiale militare.
Venivamo controllati sia in entrata che in uscita. Una notte, una decina di ragazzi del
paese furono sorpresi dopo il coprifuoco e furono arrestati e portati al comando. I
genitori dei ragazzi vennero a chiamare mia sorella Alda, che conosceva il tedesco,
chiedendole di andare al comando e cercare di chiedere il rilascio dei loro figli. I
giovani erano già stati destinati ad essere spediti via, ma mia sorella riuscì, con
molta fatica, a farli rilasciare, e non volle nessun compenso per il suo intervento. Il
rilascio però fu condizionato al fatto che se uno dei ragazzi fosse stato arrestato
un'altra volta non ci sarebbe stata più alcuna attenuante. Dopo molti mesi d'occupazione,
il comando decise di lasciare il paese, con l'intenzione di requisire tutti i cavalli e i
carri agricoli. Anche in quell'occasione Alda intervenne e riuscì a far cambiare idea al
comando tedesco.
Dato che non riusciva a trovare un lavoro e si sentiva molto demoralizzata, mia sorella
Alda decise di andare a lavorare in Germania, e l'altra sorella Ida, che aveva ventisette
anni e cinque figli, decise di andare con lei, lasciando i suoi figli a nostra madre,
senza nemmeno avvertire suo marito di quest'improvvisa decisione. I bambini furono messi
in collegio, mia madre cercò di dissuaderla, di farla ragionare, di ricordarle la
responsabilità che aveva nei confronti dei bambini e della famiglia, ma lei partì
ugualmente.
In Friuli si susseguirono varie occupazioni: i Tedeschi, la Repubblica di Salò, i
Cosacchi, i Russi bianchi, la Decima MAS al comando di Osvaldo Valente. In montagna
cominciarono a combattere i partigiani.
All'inizio non erano che pochi gruppi isolati che non impensierivano i Tedeschi. C'erano
però anche i partigiani jugoslavi che scendevano dalle montagne per uccidere i Tedeschi e
questi, per rappresaglia e per dare un esempio, impiccarono a Premariacco alcuni
prigionieri prelevati dal carcere di Udine, e invitarono la popolazione ad assistere. A
questa seguirono altre impiccagioni in altri paesi, che crearono il terrore nella
popolazione. Molti ragazzi, specialmente quelli fuggiti l'otto settembre o quelli che non
volevano andare a lavorare con la TOT, la notte andavano a dormire fuori casa, nei campi e
nei fossi, per paura dei rastrellamenti. I Tedeschi avevano dato l'ordine che ogni
famiglia dovesse indicare, accanto alla porta, il numero dei componenti, e i loro nomi.
Durante i controlli, se un componente mancava, veniva ritenuto responsabile il capo
famiglia, che doveva dire dove si trovasse.
Era l'inizio di luglio del 1944 quando un ragazzo del paese che avevo conosciuto da poco
mi convinse ad andare volontario nei partigiani. Io sulle prime non volevo andare, perché
avevo un padre molto severo e non volevo abbandonare la famiglia dove lavoravo proprio nel
momento in cui più avevano bisogno del mio aiuto. Una domenica mattina, dopo essermi
occupato del bestiame ed essermi lavato, lo trovai che mi aspettava fuori dal portone.
Senza dare nell'occhio, uscii, e iniziammo a camminare, attraversando vari paesi e
incrociando diverse pattuglie militari. Gironzolammo tutto il giorno nelle zone in cui
sapevamo che i partigiani operavano, ma senza riuscire a incontrarli. Avevamo paura di
chiedere alla gente del luogo, si stava facendo notte ed eravamo piuttosto demoralizzati.
Già ci stavamo avviando sulla via del ritorno, quando vedemmo sbucare una pattuglia di
partigiani garibaldini: con grande gioia andammo loro incontro, comunicando loro la nostra
voglia di arruolarci nella formazione. Ci chiesero se avessimo visto soldati tedeschi nei
paraggi. Il gruppo era composto da una decina di uomini ben armati, e alla nostra
richiesta di arruolarci il caposquadra ci chiese quanti anni avessimo. Io mentii, dicendo
che ne avevo diciotto, mentre ne avevo appena diciassette. Inizialmente fece un sacco di
storie, e disse che non ci voleva, ma dietro le nostre insistenze alla fine acconsentì.
Seguimmo così il gruppo in fila indiana nel più assoluto silenzio in una lunga camminata
per sentieri di montagna. Era ormai notte fonda, e dopo varie ore di cammino arrivammo a
Valle, il paese dove c'era il comando partigiano. Il caposquadra ci portò dal comandante
che gli chiese chi fossimo e perché ci avesse portati lassù. Il caposquadra rispose
spiegando la nostra voglia di entrare a far parte dei gruppi partigiani, ma il comandante
non ne fu convinto. Ci diede una settimana di tempo per pensarci su e per decidere se
restare oppure no, e ordinò che ci fosse dato qualcosa da mangiare e un posto per
dormire. La settimana passò senza che ce ne accorgessimo, mentre la compagnia di quelle
persone mi piaceva sempre di più. E venne così il momento di comunicare al comandante la
nostra decisione di restare, ci toccò una paternale e il discorso che probabilmente
veniva fatto a tutti i nuovi: "Vi sarà data un'arma e vi sarà assegnato un
istruttore che v'insegnerà l'istruzione militare. Se un giorno cambierete idea, e
fuggirete o abbandonerete il gruppo, verrete perseguitati e passati per le armi." In
quel momento mi trovai a pensare ai miei padroni, e alla mia famiglia, che non sapeva dove
mi trovassi. Erano tempi difficili, in cui si poteva facilmente venire arrestati o uccisi
se trovati in giro dopo il coprifuoco dato che -come dicevano i Tedeschi- quella era una
zona infestata da banditi (era così che loro chiamavano i partigiani). Ognuno di noi
doveva scegliere un nome di battaglia e io decisi per Verio. Ci consegnarono un tesserino
che portava la scritta "Corpo Volontario della Libertà", il nome di battaglia e
la firma del comandante. Da allora sarebbe toccato anche a noi montare di guardia la
notte, e andare di pattuglia.
Quando ci toccò il primo turno di guardia, ci accordammo così da avere il cambio dopo
due, ma al momento del cambio il mio amico era scomparso: c'era solo il suo fucile. Fu
dato l'allarme, e andammo a cercarlo, ma invano. Aveva disertato. Il comandante pensava
che io fossi a conoscenza delle sue intenzioni, mentre invece non era così. Mi chiese
anche perché fosse rimasto, se non voleva, dopotutto avevamo avuto una settimana per
pensarci. La diserzione era una cosa molto grave, perché la nostra sicurezza dipendeva da
lui. Mentre facevo il mio turno di guardia mi domandai come mai non si fosse confidato con
me, e perché mai avesse fatto una cosa come questa. La mattina fui convocato al comando e
mi fu presentato un caposquadra di nome Andrea. Saremmo dovuti andare nottetempo a
Remanzacco a prelevare il disertore, e io avrei dovuto indicargli dove abitava, per
riportarlo su, a qualsiasi costo. Il cuore mi batté forte, perché il mio paese, Orzano,
distava appena tre chilometri da Remanzacco, e il pensiero di scendere giù e passare di
notte in mezzo ai Tedeschi e ai Cosacchi mi fece venir male. Maledissi quel disgraziato: e
se anche lo avessimo trovato e ucciso, chi poteva mai assicurarci che non avesse già
parlato, nel frattempo, mettendo in pericolo tutto il gruppo? Il pericolo era molto grave,
e tutti gli uomini erano in stato d'allarme.
Venne la notte. Andrea ed io partimmo, dopo che il comandante ci ebbe raccomandato di
evitare le strade e tutti i posti di blocco conosciuti. Andrea era armato di pistola, io
invece non avevo nulla. Cominciammo così la nostra avventura, scendemmo dalla montagna
nel massimo silenzio, io dietro a lui. Arrivati a Faedis, trovammo che il paese era
occupato, e io ebbi una paura folle di essere individuato da qualche nemico. Con i nervi
tesi al massimo, continuai a seguirlo col fiatone, in una notte serena, con la luna e le
stelle sopra di noi che brillavano ignare di tutto quanto. Andrea conosceva a menadito
tutti i sentieri, i guadi, i torrenti in secca. Arrivati nei pressi di Remanzacco, si
fermò per studiare la situazione: la zona era molto pericolosa, pochi giorni prima vi si
erano svolti combattimenti con i partigiani che avevano teso un'imboscata ad un convoglio
militare sulla strada statale tra Udine e Cividale. Quando fu sicuro che tutto fosse
tranquillo, mi fece cenno di seguirlo di corsa ed attraversare la strada, poi seguimmo il
letto del torrente Malina fino alle prime case di Orzano. Ci fermammo a pochi metri da
Villa Tandoia, dove c'era il comando tedesco, nascosti in mezzo ai filari di viti, per
vedere se tutto fosse tranquillo. Si sentivano solo i grilli e gli usignoli. Il casolare
del mio amico distava pochi metri da lì, i cani ci sentirono ed abbaiarono, qualche luce
si accese e dietro alle finestre riuscimmo a vedere qualche curioso. Bussammo e ci fu
aperto. Chiedemmo dove fosse il ragazzo che cercavamo, ma nessuno l'aveva visto da quando
eravamo scappati in montagna. Io mi tenevo in disparte, nel buio, cercando di non farmi
riconoscere, perché nello stesso cortile abitava anche una cugina di mio padre. Dicevano
che forse si era rifugiato da qualche parente: di certo lui sapeva cosa lo aspettava.
Quando capii che non l'avremmo trovato, mi sentii più felice: mi sarebbe molto
dispiaciuto se l'avessimo preso per riportarlo su al gruppo partigiano e assistere alla
sua esecuzione, avrei avuto rimorsi senza fine. Per non parlare poi della difficoltà di
tornare indietro con un prigioniero con la mani legate, e per giunta imbavagliato. Dopo
esserci convinti che non c'era, riprendemmo il nostro cammino, nel più assoluto silenzio.
Attraversammo il paese: nella piazza si sentiva solo il rumore dell'acqua nella fontana.
Arrivai al cancello di casa mia, e non sapevo se entrare oppure no, per salutare la mia
famiglia e dirgli che non stessero in pensiero per me. Di certo, se fossi entrato mio
padre avrebbe cercato di convincermi a restare: avevo saputo che era andato in giro per
tutti i comandi tedeschi a chiedere se mi avessero arrestato. Alla fine, decisi di non
entrare, proseguimmo fino a Remanzacco. Andrea mi portò fino a casa sua, e andò a
svegliare i suoi. La casa distava pochi metri dalla strada principale. Dato che avevamo
molta fame, ci portarono qualcosa da mangiare, poi parlarono della situazione del paese,
se ci fossero i Tedeschi e dove fossero i posti di blocco, e gli diedero consigli sulla
strada da percorrere per non essere visti. In casa la luce era accesa, ma dall'esterno non
si vedeva nulla perché erano state tirate tende molto scure che non lasciavano trasparire
neanche un filo di luce. Poi ci riposammo un po' nel fienile, e prima dell'alba
riprendemmo il cammino attraverso la campagna e i guadi. Il sole stava sorgendo quando
arrivammo a Faedis, e di lì salimmo su, verso la montagna, sempre attenti a non
incontrare qualche pattuglia nemica, attraversando boschi e lungo i sentieri che Andrea
conosceva. Arrivati a destinazione; tirai un sospiro di sollievo. Andrea, che era un
caposquadra, andò a riferire tutto al comando.
Ogni giorno c'era qualche nuovo volontario che si univa a noi, e gli Inglesi cominciavano
a farci qualche lancio di armi automatiche e munizioni. I nostri istruttori erano molto
esperti di armi e anche nell'addestramento militare, e la disciplina era ferrea.
Una sera la mia squadra ricevette l'ordine di partire per una missione, la cui
destinazione era nota solo al caposquadra. Partimmo in dieci, armati di due mitraglie, una
inglese mai usata e una Breda, e di fucili, carabine e mitra. Scendemmo giù verso
Torreano e poi risalimmo per un pendio talmente ripido da doverci tenere ai ciuffi d'erba
per non cadere. Nel buio smarrimmo anche il sentiero, e fu una faticaccia. Stava facendo
giorno quando ci fermammo vicino ad una chiesetta, in uno spiazzo da cui si dominava tutta
la pianura sottostante. Ci fu dato l'ordine di piazzare le mitraglie per un fuoco
incrociato e quando tutto fu a posto, ci dissero di aspettare. Le ore passarono e il sole
cominciava a splendere. Mi chiesi cosa stessimo facendo lì, di sotto si vedeva la gente
andare al lavoro. Ad un certo punto si cominciò a sentire rumore di motori, e di lì a
poco comparve un primo camion aperto pieno di soldati, seguito da un'intera autocolonna.
Quando tutti i veicoli furono visibili, una delle nostre mitraglie cominciò a far fuoco,
insieme ai nostri fucili. Vedevamo i militari saltare giù dal camion, e dal pullman che
seguiva, per cercare un riparo. Colti di sorpresa, non pensarono subito a rispondere al
fuoco, e la colonna si bloccò. Da dietro si fecero avanti delle autoblindo e dei carri
armati, che cominciarono a sparare. A qual punto non ci restava che ritirarci, ma per
ritirarci dovevamo percorrere un tratto di terreno in salita e scoperto e sotto il tiro
dei cannoni e delle mitraglie. Ci riuscimmo, senza nessuna perdita, ci fermammo un attimo
dietro la chiesetta e poi scendemmo di nuovo: eravamo già lontani, e sentivamo ancora i
Tedeschi sparare. Quando, al tramonto, arrivammo al comando io avevo i nervi a pezzi: era
stato il mio battesimo del fuoco, e quella notte non dormii, continuai a rivedere sempre
la scena della battaglia. Ci furono poi delle noie con il comando, perché avevamo
consumato troppe munizioni per mitraglia. Il caposquadra venne indagato, anche se poi gli
informatori riferirono che il danno inflitto era stato molto forte. Il battaglione Manin
si spostò verso la pianura, a Torreano, nei pressi di una cava di sassi che venivano
trasportati con una teleferica al cementificio di Cividale. I nostri interruppero la
teleferica, perché il cemento veniva utilizzato dai Tedeschi per costruire fortificazioni
lungo le nostre coste. A Torreano uscivamo molto spesso in pattuglia, disponevamo anche di
alcune auto requisite o prese al nemico. Di tanto in tanto andavamo a stuzzicare i
Tedeschi nei dintorni di Cividale e nelle caserme. Ci appostavamo e aspettavamo che si
presentassero per l'appello, sul piazzale, per sparargli e portare un po' di scompiglio.
In quel periodo stavo facendo il corso di mitragliere, e mi piaceva molto: le mitraglie
inglesi erano leggere e maneggevoli e non si inceppavano mai. Andavamo a esercitarci al
tiro nella cava di Canalutto. Ero molto soddisfatto dei miei progressi, così feci anche
il corso con l'anticarro Piat inglese. Disponevamo anche di altre mitraglie più pesanti,
come la Breda.
Dopo alcuni giorni il battaglione si trasferì a Prossenico: non eravamo più tanto pochi,
come quando ero arrivato io, ma ci stavamo trasformando in un vero e proprio esercito, ben
armato e addestrato, con armamenti moderni. Avevamo una squadra di guastatori equipaggiata
di mitra Sten con il silenziatore, e una squadra mortaisti, costituita tutta da
ex-militari venuti con noi. Eravamo tre brigate, la mia era la Picelli, con i battaglioni
Manin, Verrucchi, Pisacane. Poi c'era la Brigata Buozzi, con i battaglioni Manara,
Miniussi, Fronte della Gioventù-Val Natisone, e infine la Gramsci con i battaglioni
Gregorati, Mameli e Pustetto. La nostra divisione era la Val Natisone della Garibaldi, e
l'altra era la divisione Osoppo, che aveva il comando a Porzùs. Era lassù che venivano
fatti i lanci dagli aerei: accendevamo i fuochi per segnalare la zona, e avevamo
addirittura degli ufficiali inglesi che si mettevano in contatto con i piloti. La nostra
divisione Garibaldi Val Natisone poteva contare su una forza effettiva di oltre duemila e
ottocento uomini, la Brigata Osoppo su oltre duemila uomini.
Nella Venezia Giulia i Tedeschi avevano trentanovemila uomini, compresi i cosacchi, la RSI
(Repubblica Sociale Italiana), la decima MAS e i Bellagardisti jugoslavi. Questi ultimi
erano i più terribili, e se si cadeva loro prigionieri era meglio prendere il coraggio a
quattro mani e spararsi subito un colpo alla testa, perché si sarebbe comunque stati
terribilmente torturati e uccisi. A me piaceva andare in pattuglia verso la pianura, anche
se era rischioso. Partivamo in fila indiana nel più assoluto silenzio: quasi tutti
portavamo anfibi inglesi con suole di gomma, molto silenziosi. Quando si intravedevano le
prime case delle borgate ci appostavamo con la mitraglia, mentre un gruppo scendeva a
controllare se c'erano nemici. Spesso ci capitava di scontrarci con qualche pattuglia di
cosacchi che andavano a razziare i paesi con carri trainati da cavalli.
Tutti i giorni i Tedeschi facevano alzare in ricognizione un aereo, dal quale venivano
lanciati manifestini sui quali era scritto che a chi avrebbe lasciato la lotta partigiana
non sarebbe stato fatto alcun male e che ci sarebbe stata la grazia. Nonostante questo,
però, gli aerei venivano sempre accolti a colpi di mitraglia, e una volta riuscimmo anche
a colpirne uno. Per rappresaglia, i Tedeschi ci attaccarono prima con i mortai, poi con
altre armi, ma ebbero pane per i loro denti: vennero sempre respinti. Noi ci spostavamo di
continuo ma non lasciavamo mai la zona indifesa, perché altri battaglioni prendevano il
nostro posto. Questi erano gli ordini dei superiori.
Quando fummo trasferiti a Taipana, alla nostra squadra toccò di appostarsi nel bosco: di
giorno riuscivamo a vedere bene, ma la notte era davvero difficile. I rumori erano molti,
e non sapevamo mai se fossero volpi, cinghiali o nemici. Quando toccava a me fare la
guardia, io speravo sempre che il turno trascorresse in fretta, perché a forza di
scrutare il buio pesto che mi circondava nel bosco provavo una forte senso di paura.
Da Taipana ci spostammo a Monteprato. Il nostro battaglione Manin prese posizione sopra
Torlano, in un posto da cui si dominava tutto il paese dall'alto, quasi in mezzo alle
rocce. Lì non c'era bisogno di fare trincee per piazzare le mitraglie, la roccia offriva
moltissime trincee naturali. Ci mandavano di notte a fare queste operazioni, come sempre
nel massimo silenzio, perché i cosacchi che occupavano il paese sottostante non ci
vedessero e non ci sentissero. Ad ognuno di noi venne assegnata una posizione: la roccia
era calda, eravamo a metà agosto. Al sorgere del sole, dalle nostre posizioni potevamo
vedere i cosacchi muoversi per il paese senza sospettare minimamente di essere sotto il
nostro tiro. Avevano piazzato una mitraglia sul campanile, e potevamo vederla benissimo.
Le nostre, invece, erano tutte ben camuffate con rami e foglie. Il silenzio era assoluto,
aspettavamo tutti l'ordine di sparare, e l'attesa fu lunga. Quando finalmente l'ordine
arrivò, sotto ci fu un fuggifuggi generale, i cavalli impazzirono e cominciò a sparare
con insistenza la mitraglia che avevamo visto sul campanile. Avevo molta sete, ma non
c'era modo di avere dell'acqua senza essere individuati e col rischio di essere colpiti:
solo alla sera arrivavano i rifornimenti. L'operazione durò vari giorni, i cosacchi ci
attaccavano sempre nel pomeriggio, e non potevano avanzare senza essere individuati. I
loro feriti e morti cadevano giù dal pendio roccioso. Ad un certo punto cominciarono a
scarseggiare le munizioni, e cominciammo a chiederci se non fosse il caso di ritirarsi. I
cittadini di Monteprato vennero a saperlo, si radunarono e decisero di aiutarci, perché
se i cosacchi ci avessero sconfitti il paese sarebbe stato invaso in poche ore e così ci
fecero consegnare armi e munizioni in una quantità tale che non sapevamo neanche più
dove metterle. Ci dissero che l'otto settembre i nostri soldati avevano abbandonato tutto
l'equipaggiamento, e che la popolazione aveva raccolto e nascosto tutto quanto. I
cosacchi, vedendo che non riuscivano a scovarsi, chiesero rinforzi e arrivarono così i
Tedeschi con i carri armati. Aprirono il fuoco con mitraglie, cannoni e mortai. Dopo
un'accanita lotta, vedendo che non riuscivano a sfondare, cominciarono a vendicarsi sui
civili, incendiando case, uccidendo donne, uomini e bambini lanciandoli tra le fiamme,
mentre noi, dall'alto, eravamo costretti ad assistere al massacro. A quel punto decidemmo
di scendere, coperti dalle nostre postazioni. I Tedeschi si ritirarono sotto il nostro
fuoco insistente. Andammo a vedere nei casolari in fiamme, e lo spettacolo fu allucinante:
corpi fumanti e donne sotto i tavoli, uccise a colpi di mitra. Qualcuno dei nostri andò a
cercare il prete del paese e qualche volontario, pregandoli di dare una degna sepoltura a
quelle povere vittime innocenti, sulle quali i Tedeschi avevano scaricato tutta la loro
rabbia. La gente del paese ci venne incontro offrendoci del vino: erano stanchi
dell'occupazione cosacca.
Le forze partigiane scesero giù dalle montagne e riconquistarono la pianura, mettendo in
fuga il nemico, che si era ritirato a Nimis. Ma non c'era da illudersi. Ci accampammo al
bivio di Cergneu, poco lontano da Nimis, e da quella posizione uscivamo spesso a
stuzzicare i cosacchi, cercando di capire dove questi si fossero barricati. I nostri
ufficiali stavano studiando se attaccare per andare alla conquista di Nimis, la roccaforte
dei cosacchi. Ci fu dato l'ordine di prepararci, ci diedero molte scatole di munizioni,
caricammo i caricatori e ci fecero bere un bicchiere di grappa. A me, che non ero
abituato, prese la testa: improvvisamente, con la grappa in corpo, non avevo più paura di
nessuno. Con i miei pantaloni corti blu e una maglia bianca a maniche corte, ci siamo
messi in marcia senza sapere quale fosse la destinazione. Solo i comandanti sapevano.
Attraversammo campi e ruscelli: il cielo era coperto e minacciava temporale. Arrivammo
vicino ad alcuni casolari attraversando un campo di spagna alta, alla fine del quale c'era
un letamaio a forma di cubo, alto circa un metro. Il cielo era sempre più scuro e
illuminato da molti lampi. Improvvisamente, da una di quelle case uscì un torrente di
fuoco: le mitraglie nei granai ci tenevano inchiodati dietro al letamaio, e gli unici che
potevano rispondere al fuoco eravamo Liborio ed io con le mitragliatrici. Gli altri erano
tutti inchiodati dal nemico e non potevano muoversi. In quel momento cominciò anche a
grandinare e caddero chicchi grossi come uova: venivano giù con una tale violenza che
pensai di essere stato colpito. Ormai eravamo lì da ore, il nemico resisteva ed era
difficile stanarlo. Il comandante, vedendo che non c'era niente da fare, ordinò a noi con
la mitraglia di ripiegare: era una parola, con le nostre maglie bianche eravamo
estremamente visibili, ma quello era un ordine e dovevamo rispettarlo. Così cominciammo a
strisciare sotto il fuoco nemico: sentivo le pallottole traccianti conficcarsi nel terreno
sfrigolando. Centimetro dopo centimetro, arrivammo alla fine del campo di spagna: rimaneva
un ultimo tratto da percorrere alzati per poi gettarsi in un fosso. La terra si sollevava
sotto le raffiche. Ci tuffammo entrambi senza alcun danno, e ci siamo messi subito a
riempire i caricatori per rispondere al fuoco e coprire i nostri compagni. Poco distante
da noi c'era anche un'altra mitragliatrice che sparava senza sosta: sul momento Liborio ed
io avevamo pensato che fossero nemici e ci eravamo avvicinati sempre seguendo il fosso,
stavamo quasi per spararci tra noi, ma per fortuna entrambi abbiamo visto che portavamo il
fazzoletto rosso. L'altro mitragliere era ormai sordo a forza di sparare, così anche gli
altri riuscirono a ritirarsi. A quel punto il comandante inviò una staffetta per chiedere
rinforzi o indicazioni su cosa dovessimo fare, mentre in lontananza si sentivano suonare
con insistenza le campane del paese. Noi ci chiedemmo chi fosse a suonarle, ed eravamo
anche un po' preoccupati, vedendo che la staffetta non tornava. Forse erano stati
scoperti. Ne mandammo un'altra, e invece proprio allora ritornò la prima, e ci fu dato
l'ordine di ripiegare, insieme alla notizia che Nimis era nostra e che avevamo cacciato il
nemico. Quelli che suonavano le campane erano i nostri. Tornammo indietro da dove eravamo
partiti, ci fu ordinato di entrare nel paese. Le strade erano piene di carri e cavalli
cosacchi abbandonati. Una vola dentro il paese, la gente ci accolse felice, non riuscivano
quasi a credere che avessimo sconfitto il nemico. Il nostro distaccamento prese posizione
sulla collina, e durante la notte scavammo una trincea per appostare la mitraglia pesante
Breda, mimetizzata con rami tutto intorno. Da dove ci trovavamo si dominava una zona molto
vasta: sotto di noi c'era la strada, il torrente Torre, che ci teneva compagnia con il
rumore dell'acqua, alle nostre spalle c'era il paese di Nimis. I primi giorni regnò una
calma da non credere, poi, nei giorni successivi, subimmo qualche attacco. Verso
l'imbrunire, i nostri andavano a stuzzicare il nemico verso Tarcento, e loro facevano lo
stesso con noi. Entrambi cercavamo di capire dove fossero le posizioni più importanti.
Una sera uno dei nostri che si era sdraiato per riposare venne colpito da una pattuglia
cosacca che sparava all'impazzata. Noi rispondemmo al fuoco con rabbia.
Nei giorni successivi qualcuno ci portò su un grammofono e qualche disco e noi, nel
silenzio della notte, ci divertivamo a suonare "Lili Marlen".
Dopo quindici giorni ci fu dato il cambio, e fummo messi a riposo. A me toccò di andare
di guardia alle prigioni, ma non durò molto perché una mattina cominciò il finimondo.
Pensai che fosse un attacco nemico di breve durata, ma mi sbagliavo. L'azione era
cominciata a Tarcento, con un treno blindato; poi c'erano le truppe autotrasportate, i
carri armati, l'artiglieria e anche i lanciafiamme. All'alba del ventisette settembre fui
chiamato insieme ai miei compagni a combattere sul nostro fronte, da Prestento a Faedis, a
Nimis. Io fui chiamato subito e fui portato assieme ai miei in prima linea, in un fosso.
Ero riparato da un vigneto, e alcune granate arrivarono nelle vicinanze: vedevo scomparire
le viti poco lontano da me. Dopo alcune ore ci presero e ci fecero spostare, e per
attraversare le strade che erano minate ci mandarono un compagno che sapeva dove erano
state piazzate le mine, altrimenti saremmo saltati in aria. La nostra postazione sulla
collina era stata centrata dal bombardamento, e chi non era morto era di sicuro gravemente
ferito: potevamo sentire i lamenti. Poi presero posizione i Tedeschi: ora eravamo noi
sotto il loro tiro. Da lassù dominavano la nostra zona. Dovevamo riconquistare la nostra
zona, ma non era facile avanzare sotto il tiro incalzante: prima tiravano con il mortaio,
e subito dopo con la mitragliatrice. Riuscimmo ad arrivare fin sotto, rischiando di essere
facilmente colpiti e attraversammo un campo di granoturco nel quale sentivo le canne
spezzarsi sotto le raffiche e sparire i solchi sotto i piedi. Usciti dal campo e sempre
sotto tiro, abbiamo trovato un riparo, e lì abbiamo cominciato a rispondere al fuoco, ma
poi, vedendo che il tiro del mortaio si avvicinava sempre di più a noi, decidemmo di
spostarci. Era ormai notte quando ci ritirammo, vedendo che non c'era niente da fare, per
ritornare dove c'era tutta la nostra brigata. I combattimenti proseguivano
ininterrottamente. I carri armati erano stati fermati, alle nostre spalle la Osoppo aveva
ceduto ad Attimis, e cominciavamo a sentirci circondati. La notte era fredda, e cadeva una
pioggia fitta e insistente. Venimmo poi a sapere che i Tedeschi erano arrivati fino a
Canebola minacciando le nostre spalle. Non ci restava che riprendere la via delle
montagne, ma come ne potevamo venire fuori, se eravamo circondati? I Tedeschi avevano
conquistato anche Platischis dove si trovava un battaglione sloveno: l'attacco era stato
sferrato a ferro di cavallo. Noi stavamo aspettando ordini per il da farsi quando arrivò
la notizia che la divisione Garibaldi aveva rotto l'accerchiamento dopo una lotta furiosa.
Il nemico si stava ritirando e così noi potemmo proseguire verso i monti. Non ho mai
saputo quante furono le nostre perdite, di certo molte, ma tutti noi avevamo combattuto
con accanimento.
I Tedeschi continuarono a bombardare anche dopo la nostra ritirata, e quando arrivarono a
Nimis e a Faedis incendiarono i paesi. La gente fuggì portandosi dietro le poche cose che
era riuscita a racimolare, qualcuno anche con niente. Erano terrorizzati. I Tedeschi, dopo
gli attacchi, mandarono i cosacchi a presidiare. La brigata Picelli fu inviata a
Monteprato. Il ventotto settembre il nostro battaglione Manin contrattaccò a Faedis, e il
nemico fu ricacciato. La Osoppo si trovava in difficoltà e noi mandammo in suo aiuto il
battaglione Attimis. Con grande slancio, questi ricacciarono i Tedeschi. Ritirandoci verso
Monteprato mettemmo in difficoltà la posizione della Osoppo, così andammo verso Taipana:
eravamo sfiniti e demoralizzati, avevamo fame ma i viveri non arrivavano. Io andavo a
elemosinare qualcosa nelle famiglie oppure dal prete. La popolazione della montagna
rinunciava al cibo per darlo a noi, e, infatti, io riuscivo sempre a trovare qualcosa da
mangiare. Una mattina toccò alla nostra squadra andare di pattuglia verso Monteaperta:
dovevamo essere prudenti perché non sapevamo cosa avremmo trovato dopo la ritirata.
Arrivati alle prime case, appostammo la mitraglia in un punto da dove si vedeva la strada,
mentre gli altri andavano in giro a controllare e a chiedere alle famiglie se si fossero
visti in giro i cosacchi. Una famiglia ci regalò una bustina di quelle per fare il
budino, chiedemmo un po' di latte e un recipiente, e una volta mescolato il tutto,
mettemmo il budino a raffreddare nella vasca dell'acqua fredda. Avevamo tutti l'acquolina
in bocca, e non vedevamo l'ora che si raffreddasse. Sul più bello arrivò qualcuno dal
paese, per dirci che stava salendo un convoglio di cosacchi. Noi eravamo già in posizione
per riceverli, ma la gente ci chiese di ritirarci per la paura che incendiassero il paese.
Ci convinsero e ci ritirammo, lasciando nella vasca il nostro budino.
Da Taipana ci spostammo a Porzùs, a Valle dove c'era il comando e dove venivano fatti i
lanci di armi dagli Inglesi. Lì vicino c'era una radura pianeggiante che era l'ideale per
questi lanci. Noi preparavamo dei segnali luminosi per indicare la posizione, poi il
comandante inglese comunicava via radio col pilota. Erano rimasti in pochi della divisione
Osoppo, il comando inglese aveva dato disposizione che tutti fossero mandati a casa per
l'inverno. Alla ripresa dell'offensiva si sarebbero dovuti ripresentare. Invece, noi della
divisione Garibaldi Val Natisone eravamo rimasti tutti ai nostri posti. Il cibo
scarseggiava, la fame era nera, i ricognitori tedeschi giravano e lanciavano manifestini
che incitavano a disertare e a tornare a casa, assicurando che a chi lo avesse fatto non
sarebbe stato torto un capello.
Avevamo con noi ancora qualche cavallo preso ai cosacchi, e ci toccò ucciderli uno alla
volta per poter mangiare. Toccò anche al mio, benché io non fossi d'accordo. Mi ci ero
affezionato, e poi mi era utile per trasportare armi e munizioni. Un giorno, accadde che
eravamo dentro ad una baita, in paese, e ci furono portate armi nuove: ci consegnarono un
fucile "novantuno" a testa, insieme a vari caricatori. Uno dei nostri provò a
caricare il fucile e inavvertitamente partì un colpo dalla canna, che era rivolta verso
l'alto, verso il piano soprastante. Si sentì un urlo e subito salimmo per vedere cosa
fosse accaduto: uno dei compagni era intento a uccidere qualche pidocchio e se ne stava
lì, con le brache calate. La pallottola partita accidentalmente lo aveva preso di
striscio all'interno della coscia, colpendo però il suo membro, che aveva la testa
penzoloni appesa ad un filo di carne. Il nostro compagno era davvero sfortunato, perché
era appena guarito da una ferita alla natica che si era procurato durante la conquista di
Nimis. Era toccato a noi medicarlo alla meglio.
Di primo mattino ci fu l'attacco dei Tedeschi. Noi dovemmo abbandonare il paese e lasciare
il ferito nella baita. L'indomani riuscimmo a ritornare indietro, per riprenderci il
ferito, ma non trovammo più né lui né i Tedeschi, che se l'erano portato via. La gente
del paese aveva cercato di aiutarlo, dicendo ai Tedeschi che volevamo ucciderlo, e che per
questo non l'avevamo portato via con noi. Loro ci credettero, e lo portarono giù in
pianura, e lo curarono.
Tornammo a Prossenico, e la nostra squadra fu messa di postazione vicino al cimitero, dove
c'erano alcune baite adibite a fienile. Dovevamo controllare la strada tra Longo e
Bergogna e il ponte sul Natisone. Quella strada rappresentava per noi un pericolo, perché
portava a Caporetto, dove c'era il grosso delle forze nemiche. Il cielo era coperto e
soffiava un vento gelido, mentre stavo facendo le mie prime due ore di guardia. Gli altri
erano dentro il fienile a riposare. Il capoposto era Andrea, quel mio compaesano col quale
ero andato quella notte a cercare il disertore. Cominciava a cadere qualche fiocco di neve
quando finì il mio turno, e io rientrai per scaldarmi e riposare. Quello che prese il mio
posto era un ufficiale dell'aviazione russa che era stato fatto prigioniero dai Tedeschi.
Alla prima occasione era fuggito e si era unito a noi, ed aveva già partecipato a molti
combattimenti, compreso quello di Moimacco che si era svolto mentre aspettavamo che
passasse un'autocolonna tedesca. Il russo aveva sempre combattuto con tenacia: il suo nome
di battaglia era Tovarisch. Aveva una quarantina d'anni, era un tiratore scelto e aveva in
dotazione un fucile tedesco di alta precisione, un "tac pum", così lo
chiamavamo. Oltre al fucile, portava anche una pistola Mauser calibro nove.
Quella sera, dopo avermi dato il cambio, tornò alla baita dopo appena dieci minuti per
fumare una sigaretta, cosa -questa- assolutamente proibita all'esterno perché di notte
era visibile. In quel momento passò l'ispezione, e non trovando nessuno al posto di
guardia, entrarono nella baita con i mitra spianati con l'intenzione di ucciderci tutti.
Il capoposto, che era il responsabile, dovette dare delle spiegazioni, mentre era sotto
tiro. Io, da parte mia, mi sentivo con la coscienza perfettamente a posto. Agli ufficiali
che volevano sapere chi fosse di guardia spiegai che ero appena smontato, e che Tovarisch
era uscito e poi rientrato per fumare una sigaretta. Il capoposto scaricò la colpa anche
su di me, che non c'entravo nulla, ma dato che ero il più giovane non ci fu nulla da
fare: l'ufficiale ordinò al capoposto di portarci in paese ad una cert'ora per essere
processati. Io mi arrabbiai moltissimo col capoposto che non mi aveva difeso, forse
perché aveva paura del russo. Per noi partigiani quelli erano momenti molto critici, e
gli ufficiali avevano le loro buone ragioni; la nostra legge era "quello che veniva
sorpreso a dormire al posto di guardia, non si svegliava più", e a molti purtroppo
era già successo. Quella notte non riuscii a chiudere occhio, e rimproverai con forza sia
il russo che il capoposto per non aver detto la verità, e non mi riuscì di chiudere
occhio. Al mattino ci portarono in paese, me, il russo e il capoposto. Eravamo armati, e
ci portarono in una casa nel cui salone era riunito tutto lo stato maggiore: Sasso, Vanni,
Ettore e tutti gli altri. Loro, seduti, noi, invece, in piedi. Il processo ebbe inizio, io
raccontai la mia versione e il russo la sua. Dopo averci ascoltati, emisero il verdetto:
fucilazione, per entrambi. Dovevamo essere un esempio anche per gli altri. Gli ufficiali
erano poco ben disposti anche a causa della sconfitta subita a Nimis, e non cambiarono
assolutamente idea: dovevamo essere fucilati. Io piangevo, sapendo di essere innocente e
di aver fatto il mio dovere. Ma accadde una specie di miracolo: il russo estrasse la
pistola dalla fondina e con una rapidità e un sangue freddo impressionanti lasciò di
stucco tutti i presenti. Puntando la pistola contro i giudici, disse poche parole, molto
significative: "Tovarisch kaputt, voi tutti kaputt". I presenti impallidirono,
soprattutto perché lo conoscevano e sapevano che non scherzava, e in più aveva una mira
infallibile. Rimasero tutti muti. Poi uno parlò, non mi ricordo se Sasso, o Andrea, o
Vanni: "Guardate, per questa volta vi perdono e potete andare, ma ricordatevi che al
più piccolo sbaglio vi faccio fuori sul posto".
Non sono mai riuscito a perdonare il capoposto, e mio compaesano, per non aver detto la
verità: lo chiamavamo "Sanguinario", perché non avrebbe perdonato neanche sua
madre, e tutti avevano paura di lui. Lui cercava qualsiasi scusa per provocarmi, e io
avrei dato non so cosa perché lui passasse per l'ispezione mentre ero di guardia di
notte, così forse avrei trovato il coraggio di sparargli.
La battaglia di Nimis si era conclusa con un bilancio pesante: 55 caduti, 50 feriti e 170
prigionieri. Le perdite del nemico erano ancora più pesanti delle nostre: 430 morti,
centinaia di feriti e 2 prigionieri. Avevamo perduto anche molte armi e materiali. Da
Prossenico ci siamo trasferiti a Montefosca, un paese attorniato dai monti. Erano vari
giorni che pioveva di continuo, la nebbia copriva i monti e la visibilità era scarsa.
Ciò che restava della brigata Picelli si appostò sui monti sotto la pioggia insistente.
Il mio distaccamento invece rimase in paese, dentro una casa. Verso sera portarono un
fascista con le mani legate: era stato processato e condannato ad essere fucilato. Lo
portava dentro il comandante Sanguinario, quello che ce l'aveva con me dal processo di
Prossenico, e me lo diede in consegna. Mi disse: "Tu sarai responsabile e se lui
fuggirà sarai tu a pagare, andrai davanti al plotone d'esecuzione." Me lo disse con
aria di sfida. Ci lasciarono soli, io col prigioniero che per tutta la notte non fece
altro che lamentarsi perché aveva le mani legate troppo strette. Mi pregava di
allentargli i lacci, ma io non potevo, pensavo continuamente alle parole del mio
superiore. La luce del lampione a petrolio che illuminava la stanza si faceva sempre più
debole, e io avevo sempre più paura di rimanere al buio. Ma lui insisteva, mi pregava di
slegarlo, e di fuggire assieme.
All'alba i Tedeschi attaccarono: i nostri resistevano, ma i nemici continuavano a
martellare. Da sotto, noi non riuscivamo e vedere niente perché l'altura era coperta
dalla nebbia. Ci fu dato l'ordine di scavare una buca in un piccolo campo, sotto la
pioggia, e poi di portare il prigioniero sul posto. Misero anche me nel plotone
d'esecuzione. Quando ci fu dato l'ordine di sparare, anch'io feci fuoco, senza ricaricare
l'arma. Nelle nostre file regnava il caos, ci diedero l'ordine di ripiegare perché non
era possibile sapere per quanto tempo i nostri, lassù in alto, avrebbero potuto
resistere. I Tedeschi avevano, infatti, ricevuto rinforzi: truppe cosacche, bellagardisti
e cernici. La battaglia si stava facendo più cruenta, i sentieri argillosi facevano
scivolare e così facevamo dieci passi avanti e quattro indietro, mentre la nebbia e la
pioggia ci coprivano. Arrivati nei pressi di Robidischi ci fermammo, per coprire la
ritirata dei compagni che erano in prima linea, poi scendemmo giù, attraversammo il
Natisone in piena, poi risalimmo a Prossenico e lì affrontammo il nemico, e ad aspettare
che tutti fossero arrivati. C'era con noi anche il battaglione scuola ufficiali.
Cominciava a fare buio, e noi dovevamo nuovamente scendere e attraversare un altro
torrente in piena. Nessuno di noi volle attraversare, perché, nonostante cominciasse a
fare buio, dal rumore dell'acqua si poteva capire che il torrente stava trasportando con
furia tronchi e massi, tanto da far tremare la riva. Uno di noi ci provò, e fu travolto,
ma per fortuna riuscimmo a salvarlo. I nostri superiori, vedendo che rifiutavamo di
obbedire all'ordine, si piazzarono ai due lati con i mitra spianati, minacciandoci di
morte se non avessimo attraversato. Cercammo allora un sistema per non essere travolti, e
ci abbracciammo formando una lunga catena, stringendo forte i primi perché l'acqua li
sbatteva da tutte le parti. I muli carichi, invece, non riuscirono a passare.
Era già buio, e dovemmo risalire a Platischis. I Tedeschi avevano cessato di sparare, ma
fu comunque molto faticoso percorrere quella salita di cinquecento metri. Ci mettemmo più
di due ore perché il terreno era scivoloso, e avevamo perso sia cavalli che muli.
Arrivati sulla strada tirammo un sospiro di sollievo. Si poteva passare uno solo alla
volta, perché qualcuno l'aveva fatta saltare, e di fianco c'era un costone roccioso.
Arrivammo in paese tutti bagnati fradici, pieni di freddo e fame, e subito studiammo la
posizione, dove mettere gli uomini. Quando tutti furono ai loro posti, andammo a turno
nelle famiglie che ci ospitavano per cercare di far asciugare i vestiti, ma fu un lavoro
inutile, tanto dovevamo stare di nuovo sotto la pioggia, fermi, ad aspettare il nemico. Di
primo mattino cominciò il bombardamento con i mortai, mentre i mezzi pesanti non potevano
venire avanti perché la strada non lo permetteva, e se avessero tentato, avrebbero avuto
molte perdite, perché c'era un unico passaggio obbligato. Restammo due giorni sotto
l'acqua, in attesa, senza mangiare. La situazione era abbastanza critica perché non
potevano arrivarci rifornimenti, così intervennero gli ufficiali, chiedendo agli abitanti
di metterci a disposizione quello che avevano per sfamarci. Poi andammo alla ricerca dei
muli, e li trovammo nei prati a pascolare, con tutto il carico. Il terzo giorno ritornammo
a Prossenico, nei nostri territori. Il mattino seguente mandammo una pattuglia a Longo che
si trovava oltre il Natisone, dopo una strada che saliva a serpentina. Quando i nostri
furono a metà strada, vennero accolti da raffiche di mitra, e restarono lì inchiodati
tutto il giorno, subendo anche delle perdite. Il mattino seguente toccò alla mia squadra
andare di pattuglia nello stesso paese, ma non più lungo la strada ma passando per i
campi e i prati. Il caposquadra era Andrea, il mio compaesano. Ad un certo punto non volle
più proseguire; io non so cosa mi prese, ma mi misi alla testa del gruppo col
mitragliatore, rasentando le mura del paese, e restando il più coperto possibile,
attraversai tutto il borgo senza incontrare nessuno. Proseguimmo per Bergogna, e lungo il
cammino vidi un uomo in divisa che fuggì subito non appena ci vide. Una volta arrivati,
ci venne incontro un ufficiale sloveno che ci chiese se avessimo visto uno dei suoi in
ricognizione. Noi gli spiegammo che l'uomo se l'era data a gambe non appena ci aveva
visto, così l'ufficiale si mise a bestemmiare, e lo mandò a cercare. Si era condannato
da solo.
In paese chiedemmo se si potesse avere qualcosa da mangiare.
Dopo esserci accertati che non ci fossero nemici tutto attorno, rientrammo alla nostra
base. Ci spostavamo continuamente, ma al nostro posto arrivavano altri battaglioni.
L'inverno si faceva sentire, cominciavano a scarseggiare i vestiti e le scarpe, e per lo
più i vestiti che avevamo erano pantaloni di tela e magliette, e in quelle condizioni non
potevamo certo combattere il freddo. Io ero il più sfortunato, perché non si riusciva a
trovare un paio di scarpe della mia misura. Più volte avevo dovuto camminare scalzo sui
sassi e sui ricci di castagne, ormai ci avevo fatto l'abitudine. La gente aveva cominciato
a benvolermi, e qualcuno mi offrì delle ciabatte fatte in casa, con la suola fatta di
copertone. E poi c'era la grande fame: le provviste non arrivavano, i nostri non
riuscivano a passare le linee nemiche, perché i Tedeschi volevano proprio prenderci per
fame. Bisogna ringraziare tutta la gente della montagna, che quando poteva ci aiutava: io
andavo nei campicelli a prendere qualche rapa ghiacciata, ma le mangiavamo lo stesso; io
avevo delle coliche da rotolarmi per terra. A volte ci offrivano delle caldarroste, e
anche con quelle avevo grandi bruciori di stomaco. Ogni tanto, quando andavo di pattuglia,
attraversando i paesi vedevo dei paioli di castagne bollite lasciati a raffreddare per
poterli dare ai maiali, e mi riempivo le tasche; così, mentre camminavo, me le mangiavo
di gusto. La gente mi vedeva, ma chiudeva un occhio.
Un giorno si sparse la voce che la nostra divisione avrebbe dovuto aggregarsi con gli
sloveni: la divisione Osoppo non accettò, ma i nostri ufficiali ci dissero che avremmo
dovuto raggiungere il IX Corpus Sloveno. Io personalmente non fui contento di quello
spostamento, e poi non avevo molta simpatia per gli sloveni. Per quanto fossimo in molti a
pensarla così, dovemmo ubbidire. La neve aveva cominciato a coprire i monti, e i Tedeschi
non ci davano tregua, ma non riuscivano mai a sfondare. Sui monti eravamo i più forti e
decisi. Quando ci attaccarono a Nimis avevano impiegato ventinove mila uomini tra
cosacchi, repubblichini, X mas e fascisti slavi, comandati da Friederich Rainer, ma i miei
compagni si erano battuti eroicamente, e la nostra brigata Picelli venne lodata dal
comando superiore. I morti nemici furono 430, e molti i feriti e i mezzi danneggiati.
Il ventinove novembre il battaglione Manin sequestrò del materiale destinato alla Osoppo:
viveri, vestiario e munizioni che erano stati nascosti. Tra la Garibaldi e la Osoppo si
era rotta l'alleanza, a causa del fatto che questi ultimi non volevano allearsi con gli
sloveni del IX Corpus, i quali a loro volta non ci vedevano di buon occhio perché
accampavano diritti sui confini. Il primo gruppo partì il ventiquattro novembre. Il
dodici dicembre i Tedeschi, che venivano da Pulfero, attaccarono la brigata Picelli nel
settore tenuto dal nostro battaglione Manin: dopo diverse ore di combattimento fummo
costretti ari piegare nel vallone fra Robedischis e Platischis, senza subire perdite. Poi,
dalle alture di Platischis, abbiamo fronteggiato il nemico fino a quando il comando di
divisione non ebbe raggiunto una zona calma a Montemaggiore, vicino al Matajur, sotto una
pioggia fredda e insistente.
Il venti dicembre fu deciso il trasferimento della divisione della zona di Circhina. Prima
di partire avevamo attaccato un'autocolonna che portava viveri e vestiario alle truppe
tedesche, a Caporetto e Tolmino. Il bottino di quell'attacco fu molto ricco: un numero
imprecisato di forme di parmigiano che, una volte divise, ci portarono circa tre chili di
formaggio a testa. A me toccò anche una divisa tedesca e un paio di scarpe.
La nostra marcia cominciò: la strada da percorrere era lunga, e si camminava solo di
notte per non farsi notare dal nemico, mentre di giorno ci si riposava nei fienili. Io mi
scavavo un buco e mi ci infilavo dentro tutto vestito. Eravamo pieni di pidocchi, e le
pezze da piedi erano puzzolenti. Con la fame che avevamo, mi ero fatto fuori il parmigiano
così, a secco, ma poi il problema era stato andare di corpo. Avevo una tale difficoltà
che dovetti aiutarmi con le dita, procurandomi dolore e perdite di sangue. Le notti erano
fredde e stellate, e vedevo dietro di me una fila infinita di uomini, muli e cavalli
carichi, tutti impegnati in una marcia che durava da giorni. Attraversammo monti e paesi
di cui non ricordo i nomi; una volta arrivati al fiume Isonzo tra Idresca e Kamina, ci fu
ordinato il massimo silenzio perché avevamo il nemico a sinistra e a destra, e dovevamo
attraversare la statale e il fiume. Eravamo tutti sfiniti, e il fiume era mezzo gelato,
tanto da sembrare fermo. Ci preparammo a levarci le scarpe e i vestiti per non bagnarli.
La temperatura era gelida, qualcuno diceva che c'erano venti gradi sotto zero. Io ero lì
lì per svestirmi, mentre vicino a me uno dei nostri lasciò cadere a terra nella ghiaia
le bombe anticarro Piat, e una di queste batté su un sasso con la punta, rompendo il
silenzio. A quel punto ci fu ordinato di attraversare il fiume, che in quel punto era
piuttosto largo, tutti vestiti. Io avevo le scarpe a tracolla, e appena mi infilai
nell'acqua gelida mi accorsi che era profonda, ed era tutt'altro che ferma, mi trasportava
via. Anche i muli facevano fatica, ma dovevamo fare presto, perché il colpo era stato
sentito anche dal nemico, e potevamo essere sorpresi.
Dovevamo per prima cosa appostare i primi in posizioni strategiche per coprire tutto il
resto che era dietro di noi. Io uscii dall'acqua sentendo sotto i piedi la ghiaia
ghiacciata e attaccata, ma dovevo proseguire; il vestito, man mano che andavo avanti,
diventava rigido dal freddo. Per tutta la notte camminammo sui sentieri ghiacciati del
monte Sella, si scivolava, anche i muli scivolavano e cadevano giù nei precipizi con
tutto il loro carico e lanciando dei lamenti. Ogni tanto, trovavamo qualche posto di
blocco sloveno che ci dava l'altolà, noi rispondevamo con la parola d'ordine e poi
proseguivamo. Non si arrivava mai alla fine di quella mulattiera, tutto intorno a noi,
nella luce della luna, solo neve, ghiaccio e burroni. Finalmente, di primo mattino,
arrivammo al paese di Selo: io ero ancora bagnato, e molti altri come me. Subito ci misero
ognuno in un punto strategico: da dove eravamo piazzati noi della seconda squadra del
secondo distaccamento del battaglione Manin si dominava tutta la pianura verso Santa
Lucia. Era l'ultimo dell'anno e i Tedeschi stavano festeggiando sparando e lanciando
razzi. Noi dall'alto assistevamo alla scena. Il nostro contingente doveva passare ad ogni
costo oltre il Bacia, che era presidiato dai Repubblichini. La nostra divisione era
costituita da duemila cinquecento uomini, e una parte di questi erano già passati. Ora
toccava alla Brigata Picelli con i battaglioni Manin, Verrucchi e Pisacane. Durante la
giornata ci accorgemmo che all'appello mancava un uomo. Lo cercammo dappertutto, ma di lui
nessuna traccia. In paese c'era un comando sloveno e per prima cosa i nostri ufficiali
andarono in cerca di cibo. Eravamo tutti affamati, e pieni di freddo. Il termometro
segnava venti sotto zero. La giornata era limpida, il sole ci scaldava un poco e io
riuscivo a sentire i pidocchi muoversi e uscire dalle cuciture dei vestiti. I nostri
ufficiali, dopo aver discusso con gli sloveni, riuscirono a racimolare appena cinque chili
di fagioli e altrettante patate. Avevamo chiesto anche una pecora, ma non ce la vollero
dare. Così raccogliemmo tutto quanto, andammo in un caseificio e mettemmo a bollire il
tutto in una grande caldaia. Verso sera, la minestra fu distribuita: toccarono circa due o
tre fagioli a testa, ma almeno quel piatto caldo ci scaldò un poco lo stomaco, pur senza
placare la fame. I nostri ufficiali ci dissero che si erano messi d'accordo con i
repubblichini per il nostro passaggio, ma chissà se era vero. In quella zona da parecchio
tempo c'era un discreto movimento di partigiani e probabilmente i Tedeschi lo sapevano,
con tutte le spie che avevano.
Verso mezzanotte ci mettemmo in cammino: uscimmo dal paese, attraversammo una zona
boscosa, scendemmo giù dalla montagna verso il ponte sull'Isonzo. Noi della seconda
squadra eravamo a poche centinaia di metri dalla pattuglia, la luna illuminava la discesa
e tutto era silenzioso. Arrivati a pochi metri dalla strada, la nostra pattuglia sparò
una raffica di colpi, e in quel momento fummo investiti da un fuoco furioso proveniente da
ogni parte: erano colpi di mitraglia pesante e leggera, mitra, bombe e mortai. In più,
c'erano dei razzi che illuminavano tutta la zona. Eravamo stati presi alla sprovvista. Io
cercai un riparo sotto i compagni morti, e attesi la fine dell'agguato. Poi vidi spuntare
alcuni Tedeschi con il mitra spianato, e mi alzai, tenendo le mani alzate in segno di
resa. Mentre più in alto ancora si sentiva sparare, fui preso prigioniero con una decina
di compagni: ci legarono i polsi e ci portarono in un casolare dove regnava una grande
confusione. C'erano Alpini, Bersaglieri della Repubblica di Salò e Tedeschi. Questi
ultimi ci volevano fucilare, e ci misero per due volte al muro; poi decisero di mandare
una staffetta in motocicletta a Tolmino perché il comando decidesse della nostra sorte,
ma i Repubblichini si opposero, dicendo ai Tedeschi che non erano d'accordo con loro sulla
nostra fucilazione, che avevano già avuto abbastanza morti e che in quel presidio
comandavano loro. Così, alla fine, ci portarono a Tolmino a piedi, legati. Una volta
arrivati ci fecero entrare dentro a una prigione, in un'unica cella senza letti, né
paglia, né coperte. Ci slegarono sotto la sorveglianza dei militari, sempre con i mitra
spianati. I nostri angeli custodi erano della Wermacht. Era ancora notte e ci sdraiammo
sul pavimento gelido, in attesa di una loro decisione. Era quasi mattina quando la porta
della cella si aprì ed entrarono alcuni militari accompagnati da un ufficiale della
Wermacht. Ci chiesero dei volontari per andare a seppellire i nostri morti, e i nostri che
offrirono per quel lavoro rientrarono solo alla sera. Di cibo non se ne vedeva, così
chiedemmo all'ufficiale se fosse possibile avere qualcosa da mangiare. Questi rispose che
aveva l'ordine di non darci niente. Entrò da noi il mattino dopo con una pagnotta di pane
nero sottobraccio, la fece a fette e ce la offrì, dicendoci che quella era la sua razione
di pane e che aveva dato ordine agli alberghi di Tolmino di mettere da parte gli avanzi
per noi, ma noi quegli avanzi non li vedemmo proprio. In quella cella dove eravamo tenuti
prigionieri e custoditi dalla Wermacht si svolgeva un vero e proprio pellegrinaggio di
soldati fascisti e bellagardisti che volevano entrare ad ogni costo con le baionette in
mano e farci fuori tutti, ma la Wermacht li tratteneva. Potevamo vederli, con la bava alla
bocca dalla rabbia, quando cercavano di sfondare la porta della cella, ma arrivarono dei
rinforzi che li obbligarono ad uscire.
Restammo in quella cella per tre giorni infernali, poi una sera ci legarono uno alla volta
i polsi, ci fecero uscire e fuori trovammo di nuovo una folla di militari fascisti,
cosacchi, bellagardisti, mentre i Tedeschi ci proteggevano da quella marmaglia assetata di
sangue. Fummo fatti salire su due camion scoperti, misero un uomo con la mitraglia sopra
la cabina di guida, e un altro in fondo al cassone col fucile. Fecero sedere noi
prigionieri sul cassone. Non avevo idea di dove fossimo destinati. I Tedeschi, vedendo che
la folla era molto agitata e ci stava minacciando, diedero l'ordine di partire: se li
avessero lasciati fare, ci avrebbero sbranato o decapitato, e avrebbero infilato le nostre
teste sulle baionette. Era così che facevano.
I due camion si mossero, e la folla ci seguì finche poté. Il nostro camion prese molta
velocità e andò ad urtare contro un angolo di una casa: l'impatto col muro fece fare
delle scintille al cassone di metallo e mi accorsi che i lacci alle mani si erano
allentati, avrei potuto liberarmi. Mi chiesi se anche qualche altro dei miei compagni
avesse potuto liberarsi, e scrutai gli altri cercando nei loro occhi un segno che mi
facesse capire. Se qualcuno mi avesse fatto un segno, avrei potuto immobilizzare il
soldato con la mitraglia, o quello col fucile che era accanto a me. Una volta in possesso
delle armi, non era difficile prendere il comando della situazione. Ma mi resi conto
subito che era tutta una mia fantasia, le mie mani erano congelate e non avrei potuto fare
nulla. Arrivammo ad un posto di blocco nelle vicinanze di Cividale e ci fermammo, per
proseguire subito dopo per Remanzacco, Udine e poi Gorizia. Quando arrivammo era ancora
notte: ci portarono al comando della Wermacht, dove fummo interrogati uno alla volta. Io
fui anche maltrattato perché portavo una divisa tedesca, e mi dissero che avevo ucciso un
loro commilitone per procurarmi la divisa. Io risposi che ero stato prelevato a casa dai
partigiani, e portato sulle montagne con loro. Dissi anche che non ero armato, ma non so
se mi credettero. Mi portarono poi nella prigione di Gorizia in una cella dentro alla
quale già c'erano una decina di carcerati, tutti partigiani. In fondo, c'era un secchio
per fare i bisogni; a terra, della paglia per dormire. L'ispezione passava due volte il
giorno per controllare che le sbarre fossero sane: le battevano un martello per
controllare che suonassero bene. In quella prigione non si poteva dormire mai, giorno e
notte si sentivano canti patriottici provenire dalle altre celle, e oltre ai canti c'era
un viavai continuo di prigionieri che venivano prelevati, e che non ritornavano mai.
Eravamo tutti terrorizzati; il nostro unico passatempo era spidocchiarsi.
Un giorno entrò un Tedesco nella nostra cella, e chiamò il mio nome. Io lo guardai con
paura e risposi facendomi avanti. Mi ordinò di seguirlo, e mentre passavo con lui davanti
alle altre celle mi chiedevo se avrei fatto anch'io la fine di tutti gli altri, che non
erano ritornati. Mi fecero entrare in una stanza dove era sistemato il comando, e con mia
grande sorpresa davanti a me trovai mio padre. L'ufficiale tedesco mi disse che aveva
fatto un grande favore a mio padre, perché era assolutamente proibito dal regolamento
avere colloqui con i partigiani. Ci diede mezz'ora di tempo, ma restò a sorvegliarci. Per
prima cosa mio padre mi chiese se stessi bene, poi se avevo notizie di mia sorella Alda,
che era stata prelevata dai partigiani del paese con la promessa che l'avrebbero portata
in montagna con me. Io gli risposi che non ne sapevo niente, e che in montagna non l'avevo
mai vista, né avevo avuto sue notizie. Poi mi consegnò una valigia di cartone marrone
che era già stata controllata dai Tedeschi: dentro c'erano indumenti di ricambio. Non
vedevo l'ora di sbarazzarmi di quella divisa tedesca. Alla fine, mi riferì che il
comandante del carcere gli aveva detto che l'indomani sarei stato portato in un campo di
lavoro in Germania, e così fu.
Durante la guerra 1914-18, anche mio padre fu fatto prigioniero e portato a lavorare in
Germania nel campo di Mauthausen.
Al mattino presto, le guardie carcerarie spalancarono i cancelli delle celle e ci fecero
uscire, con prepotenza ci dissero di prendere con noi le valigie, chi le aveva, oppure i
propri stracci.
Avevamo invaso tutto il corridoio del carcere, fuori dalle celle ci aspettavano i militari
della 22 armati, ci costrinsero a seguirli con brutalità. Appena fuori dal carcere
c'erano altri prigionieri, difficile valutare il numero, ma eravamo in molti.
Stavamo aspettando di muoverci, ci guardavamo tutti chiedendoci dove ci avrebbero portati.
Ci misero in fila per quattro con ai lati la scorta di Tedeschi. Attraversammo la città
di Gorizia fino alla stazione ferroviaria mentre la gente ci seguiva con lo sguardo dalle
finestre, in silenzio.
Alla stazione ci aspettava un convoglio
di vagoni merci con le porte aperte. Alla nostra sinistra, c'erano già dei vagoni pieni
che venivano da Trieste, ai finestrini filo spinato. Ci obbligarono a salire con forza,
non so quanti fossimo, so solo che eravamo pigiati come delle bestie.
Quando videro che non ce ne stavano più, fecero scorrere la porta con violenza e ci
chiusero dentro. Si sentivano scattare i chiavistelli e poi piombare, si sentivano comandi
secchi in lingua tedesca. Questa cerimonia non finiva mai mentre noi non vedevamo l'ora
che il convoglio si muovesse. Le guardie tedesche, insieme a militi italiani, vigilavano
il treno, la gente cercava di avvicinarsi ai vagoni, forzando il blocco, per poterci
passare del cibo dai finestrini, ma solo quelli più vicini riuscirono a prendere
qualcosa.
Trascorrevano i giorni ed il treno rimaneva fermo. I nostri bisogni dovevamo farli dentro
il vagone, non c'era neanche spazio per muoversi, si dormiva in piedi come cavalli. Per
fortuna eravamo in inverno e non si sentiva la puzza.
Restammo fermi in stazione per due giorni, su un binario morto. Infine il treno si mosse,
sostammo a Pradamano, ed anche lì ci misero su un binario morto. Sopra le nostre teste si
sentivano aerei passare continuamente.
La contraerea sparava senza interruzione: in quella zona era molto efficiente, poiché
doveva proteggere la linea ferroviaria, l'unica ancora in grado di funzionare e per questo
molto importante, sia per il trasporto di truppe che di materiale bellico. L'aviazione
alleata non riuscì mai a danneggiarla; il sabotaggio era un compito che spettava ai
partigiani, per ritardare l'arrivo dei convogli durante la notte.
Il convoglio si mosse per fermarsi alla stazione di Udine. Si sentiva un gran movimento
assieme a degli ordini in tedesco, poi l'agganciare di altri vagoni.
Finita la loro operazione fecero ripartire il treno. Era passata la mezzanotte ed il treno
andava lentamente. Dal finestrino s'intravedeva la campagna coperta di neve. Noi tutti
attendevamo che i nostri attaccassero il convoglio, ne eravamo quasi sicuri. Fu tutta
un'illusione: di notte si viaggiava e di giorno fermavano il convoglio in galleria, dove
si faceva fatica a respirare dal momento che la locomotiva era alimentata a carbone.
Dopo alcuni giorni di "pellegrinaggio", verso sera il convoglio si fermò, ma
poco prima avevo capito che stavamo attraversando un ponte di ferro.
Poi si udirono dei comandi ad alta voce, come solo i Tedeschi sapevano fare.
Incominciarono ad aprire tutti i vagoni: davanti a noi si schierarono truppe armate, ben
allineate con al fianco dei cani lupo addestrati. Ci ordinarono di scendere ed allinearci
per quattro. Mi guardai intorno e vidi un ponte sotto al quale scorreva un grande fiume
che un isolotto divideva a metà.
Il fiume era in piena e l'acqua torbida, a terra la neve. Cercai con gli occhi e lessi il
nome di quella stazione: MAUTHAUSEN. In quel momento mi venne in mente che anche mio padre
vi fu prigioniero nel 1918.
Da uno dei vagoni non si vide uscire nessun Tedesco, ma solo uno dei nostri compagni che
poco dopo era già cadavere.
In seguito venni a sapere che il resto del vagone era riuscito a fuggire e solo quel
povero disgraziato era stato sorpreso. Per questo i Tedeschi riversarono tutta la loro
rabbia su quel povero sventurato uccidendolo selvaggiamente, a furia di colpi dati con i
calci dei mitra.
Ci ordinarono di muoverci e di seguirli, facendoci camminare per una mulattiera tutta in
salita. Attraversammo boscaglie e prati senza vedere nulla attorno a noi. Ero stanco
poiché da diversi giorni non mangiavo, non bevevo e non riposavo. Stavamo sempre in piedi
e quando dormivamo lo facevamo uno appoggiato all'altro.
Dopo circa tre o quattro chilometri si presentò davanti ai miei occhi una muraglia alta
di granito. Tutto intorno c'erano delle garitte dentro alle quali c'erano le sentinelle
armate di mitragliatrici. Ad un tratto si accesero dei fari che mandavano la loro luce su
di noi.
L'ufficiale ordinò alle sentinelle di aprire il portone: sopra all'arco c'era l'aquila
con la svastica, enorme, come enorme era il massiccio portone di legno.
Quando questo venne aperto entrammo e ci fecero sistemare tutti in una piazza, ben
allineati. Ognuno di noi aveva con sé una valigia di cartone legata con della corda.
Alcuni portavano un piccolo involto in mano, altri invece non avevano niente. Il portone
si chiuse e i fari furono di nuovo rivolti verso di noi. Iniziarono a contarci. Davanti a
noi misero dei cadaveri e ci dissero di consegnare tutto quello che avevamo, valige e
fardelli.
Intanto sul balcone si affacciò un ufficiale che ci squadrò dalla testa ai piedi. Ci
fece un discorso che io non capii, anche perché l'interprete si sentiva poco.
Ci ordinarono nuovamente di seguirli. Alla destra di questa piazza c'era una scalinata e
alla fine, sempre a destra, un portone chiuso.
Attorno si vedevano molte baracche buie, c'era una grande muraglia e nel campo regnava il
silenzio. Le luci lo illuminavano a giorno. Poi il portone si aprì e davanti a noi si
aprì un grande spiazzo: da un lato le baracche e dall'altro alcune costruzioni, sempre in
granito, con delle ciminiere dalle quali uscivano delle lingue di fuoco con un forte odore
di carne abbrustolita.
Il terreno era coperto di neve e ghiaccio. Ci fecero scendere in uno scantinato, in una
specie di salone si fecero spogliare tutti, ordinandoci di consegnare tutti gli oggetti
personali come oro, orologi, etc. Poi ci spostarono in un altro locale, molto grande.
Eravamo tutti schiacciati l'uno contro l'altro, ma vidi che c'erano delle docce, dalle
quali cominciò prima ad uscire acqua ghiacciata, e poi bollente. Non c'era niente per
asciugarsi.
Nel frattempo le SS controllavano che avessimo tutti consegnato i nostri oggetti: con noi
c'era un prete di Lubiana che aveva al collo una catenina d'oro che non aveva consegnato.
Gli dissero di togliersela, ma lui rifiutò, pregando che gli fosse lasciata perché era
un caro ricordo di sua madre, ma non ci fu niente da fare, gliela strapparono con violenza
e cattiveria. Il prete, che parlava bene il tedesco, cominciò allora ad offenderli nella
loro lingua, ma subito attorno a lui si formò un cerchio di guardie che lo picchiarono
finché non stramazzò a terra in fin di vita. Lo fecero portare via: noi tutti eravamo
nudi ed avevamo assistito alla scena senza aver potuto reagire in alcun modo. Eravamo
sbigottiti per tanta ferocia e freddezza. Ci fecero uscire dalle docce, nudi e scalzi, e
ci fecero attraversare il campo camminando sulla neve. Ci portarono dentro una baracca
gelida. A destra e a sinistra c'erano due stanzoni, vuoti. In un angolo c'erano alcune
piramidi di materassi che non raggiungevano lo spessore di quattro dita. Ad ognuno di noi
furono consegnati dei vestiti normali, non una divisa. Su ogni capo c'era una fascia che
recava stampato un triangolo rosso con una I al centro e con un numero sotto. Ci diedero
anche una piastrina numerata, che avremmo dovuto portare sempre al polso, e il numero
della piastrina era lo stesso numero della fascia cucita sui vestiti.
Il kapò ci spiegò che da quel momento in poi non avevamo più un nome ed un cognome, ma
solamente un numero, che dovevamo imparare a memoria. La I del triangolo stava a
significare Italiano, e c'erano altre lettere in base alle varie nazionalità.
Dopo aver indossato il vestito, il kapò ci indicò i materassi: diede l'ordine di
disporli per terra e ci disse di metterci a dormire. Fu un dramma, perché eravamo in
cinquecento, ma in qualche modo ci riuscimmo, stringendoci come sardine, messi di fianco e
con i piedi in faccia l'uno all'altro. Il kapò camminava sopra i nostri corpi,
picchiandoci con una frusta per metterci a posto: dovevamo rimanere tutta la notte in
quella posizione, perché se ci muovevamo non riuscivamo più a incastrarci di nuovo e
rischiavamo di prenderci anche delle frustate.
Eravamo stanchi morti e pieni di freddo, ma stretti com'eravamo riuscivamo anche a
scaldarci. Qualcuno dormì un po', qualcuno invece non ci riuscì. Io mi ero appena
appisolato quando il kapò ci diede la sveglia. Guardai fuori e vidi che era ancora notte.
Ci fece mettere a posto tutti i materassi e ci ordinò di metterci in fila indiana per
andarci a lavare.
Dentro la baracca c'era una stanza con gabinetti, una vasca circolare e nel mezzo una fila
di rubinetti: andammo a lavarci a turno con acqua ghiacciata e senza sapone. Guardandomi
intorno vidi che c'erano tre o quattro asciugamani, ma erano completamente impregnati
d'acqua e quindi più che asciugarci ci lavavamo di nuovo. Tornammo dentro la baracca:
c'era qualcuno che dormiva. Là dentro eravamo di certo almeno un migliaio. Poco dopo, ci
fecero tornare tutti fuori, allineandoci in fila come per una parata, e guai a chi si
muoveva. I kapò passavano tra le file sempre armati dei loro manganelli di piombo e
gomma. Restammo così per ore, fino a quando ci passò in rassegna la SS. Dovevamo
togliere il berretto in segno di saluto, mentre lui passava in mezzo alle file
controllando che tutto fosse a posto. Una volta passato, il kapò fece rompere le righe.
Noi cercavamo di restare l'uno vicino all'altro per scaldarci perché la temperatura era
attorno ai 12 gradi sotto zero o anche meno, e i nostri indumenti erano leggeri. Ai piedi,
poi, avevamo solo degli zoccoli, e niente calzini. Con quel freddo e con la fame che
avevamo, lo stomaco era a pezzi. Non mangiando, era ancora più difficile sopportare il
freddo.
Non so che ora fosse perché nessuno di noi aveva più l'orologio, ma ad un certo punto
vidi arrivare due detenuti che portavano due bidoni fumanti. Ci consegnarono un recipiente
per la zuppa, che era in smalto tutto scrostato, ed un altro recipiente ed un cucchiaio
per quello che chiamavano "caffè" ma che non era altro che una specie di tisana
di foglie di tiglio, ma in quel momento non aveva importanza, perché l'unica cosa che
contava era mettere qualcosa di caldo nello stomaco. Poi distribuirono una fetta di pane
nero che non pesava più di cinquanta grammi e un pezzo di margarina minerale, che non era
gialla ma di un colore arancio carico. Era una margarina che veniva estratta dal carbone,
e tutti noi la divorammo in un attimo, sperando che a mezzogiorno ce ne dessero dell'altra
insieme alla minestra. Dopo la colazione, ci fecero rientrare nella baracca e ci
ordinarono di spogliarci tutti. Entrò nella baracca un gruppo di barbieri, che ci
rasarono tutti, uno alla volta, non lasciando sui nostri corpi neanche un pelo.
Dopo la rasatura, ci diedero dei secchi che contenevano un liquido denso e marrone, che
sembrava colla fatta con la farina, e usando dei pennelli ci cosparsero con questo liquido
dicendoci che serviva per uccidere i pidocchi. Ci dissero anche che se addosso a qualcuno
fosse stato trovato un solo pidocchio gli avrebbero sospeso la razione giornaliera di
cibo, poiché nel campo c'era un'epidemia di tifo pidocchiale che non uccideva solo i
deportati ma anche i Tedeschi, e per questo loro avevano paura.
Le nostre baracche erano isolate da quelle del campo, tutto intorno c'era una muraglia
alta quasi quattro metri ricoperta di granito, sopra alla quale correva il filo spinato
con l'alta tensione.
Noi non vedevamo e non sapevamo quello che succedeva nel campo. Quella zona veniva
chiamata "quarantena" ma non ho mai capito perché. Ogni tanto mi sceglievano
per andare a prendere i bidoni del caffè o della minestra, e facevamo un piccolo tratto
di strada all'interno del campo. Fu così che ebbi occasione di vedere degli esseri che
non avevano più nulla di umano: sembravano cadaveri viventi e stavano in piedi per
miracolo. Qualcuno dentro a una coperta trainava un cadavere, la cui testa penzolava di
fuori, con gli occhi e la bocca aperti. In quel momento non riuscivo a pensare che stesse
accadendo realmente, e non credevo ai miei occhi. Probabilmente anche i miei compagni
avevano i miei stessi pensieri.
I camini fumavano giorno e notte, e lasciavano vedere delle lingue di fuoco. C'era un
odore costante di carne bruciata. Non riuscivo ad abituarmi a questa cosa: mi chiedevo
dove mi avessero portato, perché quello non era un campo di lavoro come mi avevano detto.
Oltre a quello che avevo visto ci doveva essere dell'altro che non si vedeva e che nessuno
di noi sapeva.
Una mattina ci chiamarono e ci fecero delle fotografie in varie pose, solo fino al busto,
in modo che si leggesse il nostro numero. Alla sera ci consegnarono dei guanti di feltro e
il giorno dopo, alle quattro del mattino, ci misero in fila per quattro e fecero
l'appello. Contemporaneamente aprirono il cancello a sbarre di ferro e diedero l'ordine di
muoversi. Attraversammo il campo ed il silenzio era rotto dal rumore dei nostri zoccoli.
Eravamo sorvegliati da entrambe i lati dai Tedeschi che portavano i cani al guinzaglio.
Ricordo che, dopo aver camminato per vari chilometri, si presentò davanti a noi la
ferrovia. Sui binari c'erano dei vagoni aperti sui quali ci fecero salire. Poi il treno si
mosse, per quale destinazione era un mistero. Più tardi il convoglio si fermò e ci
fecero scendere tutti quanti e camminare lungo le rotaie. Si intravedevano vagoni
rovesciati, profonde buche, binari contorti... era un'ecatombe di vagoni. Ci fermarono per
consegnare a chi la pala e a chi il piccone con l'ordine di sgomberare i binari, riempire
le buche e ripristinare la linea ferroviaria che portava in Italia. Soffiava un freddo
vento, c'erano neve e ghiaccio e nessuno di noi aveva il cappotto o una maglia pesante.
Solo una camicia e una giacca di cotone con una temperatura che oscillava tra i 12 e i 18
gradi sotto lo zero. Ma nessuno di noi sentiva il freddo, non ne avevamo il tempo e con
chi faceva il lavativo i Tedeschi usavano la frusta.
Intravidi per un attimo il nome della stazione: c'era scritto LINZ.
Lavoravamo a turni di 12 ore al giorno ed il turno di notte era seguito da esperti
Austriaci.
Sia il giorno che la notte si sentivano e vedevano i bombardieri alleati passare e le
sirene suonare. I Tedeschi si riparavano sotto i vagoni e poche volte spostavano anche
noi. Sapevano che qualche bomba poteva cadere sulla città e sulla stazione.
Linz era una città industriale. Quasi tutte le industrie e le stesse abitazioni civili,
erano state rase al suolo. In piedi ci rimaneva veramente poco.
La sera, dopo una dura giornata di lavoro, stanchi e sfiniti, dovevamo camminare per
riprendere il treno. Non si ritornava a Mauthausen bensì al campo di Gusen, che era un
sottocampo di Mauthausen. Anche lì, prima di entrare, facevano l'appello. Dovevamo poi
attendere che la baracca si svuotasse da quelli che facevano il turno di notte nelle
fabbriche che si trovavano nelle gallerie sotterranee dove venivano fabbricati aerei ed
armi.
Non vedevamo l'ora che questi sgomberassero la baracca. Prima di entrare ci diedero una
fetta di pane che io misi in tasca. Volevo andare a riposare e vidi i primi letti a
castello. Prima di riposarmi volevo mangiare quella benedetta fetta di pane ma, quando
misi la mano in tasca mi accorsi che il pane era sparito. Rovesciai la tasca per vedere se
fosse bucata ma non lo era. Accanto a me c'era un prigioniero che mi guardava e mangiava.
Il suo atteggiamento mi insospettì e così mi gettai su di lui ed iniziai a tastarlo.
Aveva un pezzo di pane in tasca e mi chiesi come potesse averne due, se uno lo stava
mangiando. Gli strappai il pane e questi non si ribellò perché sapeva perfettamente di
avermelo sottratto con destrezza dalla tasca. Mi addormentai perché la stanchezza era
più forte di me. Alla sveglia del mattino, sempre alle cinque, mi accorsi che gli zoccoli
erano spariti. Guardai in ogni letto ma senza risultato.
Come fare? Se non trovavo un altro paio avrei dovuto camminare scalzo sulla neve e sui
sassi, lungo la linea ferroviaria. Mi venne subito un'idea. Un turno era appena arrivato e
stava andando a riposare. Vidi un paio di zoccoli, ne approfittai e li rubai. Nessuno se
ne accorse, mi era andata bene. Sul momento non guardai se gli zoccoli erano della mia
misura. Uscii dalla baracca con gli zoccoli in mano e la paura che qualcuno mi avesse
visto. Li provai ma mi accorsi che erano di una misura troppo piccola. Cosa potevo fare?
Li misi ugualmente ma in quelle condizioni, con le dita piegate, era difficile camminare
senza provare dolore. Stringevo i denti dal male e la colonna si mosse. Dopo vari giorni
di lavori forzati, molti di noi incominciarono a cedere: il freddo, la fame e le frustate
facevano cadere a terra svenuti i compagni e la SS ci obbligava a raccoglierli per i piedi
e le braccia (senza che questi rinvenissero) e a gettarli nelle voragini provocate dai
continui bombardamenti. Poi, sotto la minaccia delle armi, dovevamo coprire queste
voragini con i nostri compagni vivi: avevano solo la colpa di svenire per il duro lavoro.
Gli zoccoli mi avevano provocato delle vesciche ai piedi. Mi facevano male e sanguinavano,
ma cercavo di resistere per non essere seppellito vivo.
Soffiava un vento gelido. Dovevamo maneggiare delle rotaie tutte contorte e sostituirle
con delle nuove. Finito il nostro turno di lavoro (dodici ore più altre tre ore di andata
e ritorno) ci rimaneva poco per dormire. Arrivati al campo di Gusen, non c'era posto per
tutti. Una parte fu costretta a dormire fuori. Ci diedero una coperta a testa ma non era
sufficiente: non sapevo se metterla sotto (perché c'era il fango) oppure sopra. Decisi di
mettermela sopra per difendermi dal gelo. Gli altri fecero altrettanto. In ogni caso, il
freddo ed il fango non ci impedirono di addormentarci.
Per fare la pipì non potevamo muoverci poiché i nostri indumenti erano ghiacciati nel
fango. Cosa potevo fare? Presi il recipiente per il caffè e dopo aver fatto i miei
bisogni lo misi da parte.
Al mattino la sveglia fu una tragedia: per staccare il fango ghiacciato molti lasciarono
attaccati dei lembi di stoffa. Intanto sul lavoro iniziavo a non sentirmi molto bene.
Sentivo dolore all'inguine e avevo anche la febbre alta. Ma ero terrorizzato al pensiero
che i Tedeschi lo venissero a sapere. A chi stava male loro dicevano: " tu
krank, tu
kaput forno crematorio". Perciò continuavo a resistere in silenzio, con le lacrime
agli occhi. Ritornando al campo pensai di marcare visita, ma mi fu consigliato di non
farlo. Non riuscivo a capire il perché. Quella sera riuscii a dormire all'interno della
baracca, per terra, con la febbre ed il dolore che aumentavano. Mi guardai l'inguine:
avevo una palla grossa come una pesca ma nonostante ciò mi addormentai per la stanchezza.
Il mattino dopo non riuscivo ad alzarmi. Il kapò aveva in mano un grosso bastone ed aveva
un braccio solo. Dissi che mi sentivo male e che intendevo marcare visita. Questi si
avventò su di me con una tale violenza, colpendomi con forza alla schiena, che rimasi per
un attimo senza fiato per il dolore.
"Tu devi andare a lavorare" mi disse in un tedesco masticato malamente (chissà
di che nazionalità era!). I miei compagni avevano assistito alla ferocia della scena e a
me non rimaneva altro che stringere i denti, rialzarmi e partire con loro verso il lavoro.
Fu una giornata che avrei preferito morire piuttosto che soffrire così tanto, non ne
potevo più di essere trattato in quel modo.
Ogni giorno molti di noi non ritornavano al campo, rimanevano sepolti nei crateri delle
bombe. Una sera, invece di andare a Gusen, ci portarono a piedi in un campo a pochi
chilometri da Linz. Questo campo era stato bombardato per sbaglio pochi giorni prima
perché al suo fianco c'era una caserma tedesca: invece di colpire quest'ultima colpirono
il campo e vi furono molti morti tra i prigionieri. Il campo si chiamava Linz due ed era
circondato sia dal filo spinato che da un canale d'acqua. Quando ci presentammo nel
piazzale dell'appello, tutti ben allineati, io ero in ultima fila. Eravamo li da molto
tempo, fermi ed immobili e non decidevano mai di farci entrare, si sentivano solo le urla
dei Tedeschi. Nel frattempo io ero curvo dal dolore: se stavo dritto mi faceva male,
sentivo che la febbre aumentava. Non so quanto tempo ci lasciarono fuori. Ad un tratto mi
arrivò da dietro un Tedesco che vedendomi ricurvo cominciò a picchiarmi di santa ragione
e mi disse che stando curvo non riuscivano a vedermi e facendo la conta ne mancava uno
(che ero io). Pensavano che fossi fuggito e così, oltre al male che avevo di mio, mi
diedero anche delle frustate. In questo modo, quando tutto fu chiarito, ci mandarono nella
baracca. L'indomani non ce la facevo più a lavorare, piangevo dal dolore. Mi venne vicino
un giovane Hitleriano e mi disse: "Tu krank, tu forno crematorio, kaput".
Continuai a lavorare mentre una delle SS osservava la scena. Quando il giovane si fu
allontanato (non aveva più di sedici anni e portava una divisa fiammante) la SS mi si
avvicinò e mi disse in italiano di seguirlo. La seguii fino quando mi disse:
"Mettiti sotto questo vagone e riposati, io ti starò accanto fino alla fine del
turno". Mi dava la schiena rimanendo in piedi e mi disse ancora: "Cerca di
resistere che la guerra sta per finire". Mi azzardai a chiedergli come mai indossasse
la divisa delle SS. Mi rispose: "Non volevo fare la tua fine così ho dovuto
arruolarmi e ho cercato di aiutare gli altri più che potevo".
Ritornando al campo marcai di nuovo visita. La mattina portarono tutti noi malati a
Mauthausen per la visita medica. Ci tolsero tutti i vestiti e rimasti nudi ci fecero
rimanere fuori, al freddo, con una temperatura di oltre dieci gradi sotto lo zero. Abbiamo
atteso il responso della commissione medica per oltre cinque ore: sapevamo che se ci
avessero detto di andare a fare la doccia, voleva dire andare a morire nella camera a gas!
Eravamo ridotti a degli scheletri e la camera a gas significava la fine di molte
sofferenze. Alcuni di noi avevano il coraggio di gettarsi sul filo spinato ad alta
tensione pur di farla finita. Ad un certo punto si presentò un kapò ed un soldato e ci
dissero di seguirli. Ci portarono al revire, che voleva dire ospedale. Tirammo
tutti un sospiro di sollievo. Non ci fu dato nessun capo di vestiario. Mi separarono dal
gruppo e mi portarono in infermeria. Dopo avermi visitato mi misero su un lettino,
legandomi mani e piedi con delle cinghie. Mi chiesi cosa pensavano di farmi e guardandoli
bene negli occhi mi assomigliavano a dei macellai. Con un batuffolo di cotone imbevuto di
tintura mi disinfettarono (riuscivo a seguire tutti i loro movimenti perché non mi
avevano coperto gli occhi) e vidi che uno di loro teneva in mano un bisturi. Lo avvicinò
all'inguine e con un'incisione netta tagliò: il pus uscì e poi con un paio di forbici
entrò nella ferita, andando fino all'osso. Fece uscire tutto il pus, poi con una paletta
di legno spalmò una pomata nera. Fasciarono la ferita con della carta (ne avevano un
rotolo intero), mi slegarono e mi riportarono nella baracca.
Quello che videro i miei occhi é difficile da descrivere. Ero ridotto molto male, ma
quelli che camminavano erano degli scheletri. I letti erano tutti a castello di tre piani.
A me assegnarono il primo piano e feci grandi sforzi per potermi sistemare in quel letto:
erano già in cinque ed io ero il sesto. Avevamo una coperta in sei ed il materasso, che
era riempito con segatura e l'involucro fatto con carta ritorta, aveva uno spessore di
cinque centimetri (si sentivano le assi di legno!).
La baracca non aveva finestre, dentro faceva un freddo bestiale e c'erano correnti d'aria
dappertutto. Come per tutte le baracche del campo, non esisteva il riscaldamento e a me
sembrava di essere nell'inferno di Dante. Questo, per me che lo vedevo e vivevo era
veramente un inferno. Solo uno scrittore saprebbe descrivere con tutti i dettagli quei
momenti. Io lo descrivo come lo vedevo e lo vivevo, come ne sono capace.
In questo revire (ospedale) eravamo tutti nudi e a letto, essendo stretti come
sardine, riuscivamo a scaldarci. I cuscini non esistevano e al loro posto avevamo un'asse
di legno. Ogni tanto sentivamo cadere delle gocce ma non era acqua bensì urina che
perdevano quelli che morivano. Più di una volta accadeva che mentre si stava mangiando o
bevendo il mestolo di minestra che ci davano, qualche goccia cadeva dentro. Nonostante
ciò, si continuava a mangiare quella brodaglia, fatta con bietole, carote e raramente
qualche buccia di patata. Non era necessario lavare il recipiente: con la fame che avevamo
leccavamo il piatto fino a renderlo pulitissimo. Il pane non lo vedevamo più, c'era solo
quel mestolo di minestra.
Dentro la baracca si continuava a morire. Tutte le mattine andavo a medicarmi poiché la
fasciatura di carta, a causa del pus, cadeva lasciando la ferita esposta alla polvere, ai
microbi, allo sterco essiccato e agli sputi.
Nell'infermeria avevo conosciuto un partigiano italiano che era del mio paese. Si chiamava
Nino Cainero. Al mio paese non conoscevo tutti perché la mia famiglia era rientrata da
poco in Italia. Questi era ridotto malissimo: aveva l'ulcera e la dissenteria. Anche lui
era stato operato e lo usavano come cavia. Non stava in piedi e allora lo aiutai ad
entrare nella baracca e lo misi a letto. Era anche lui nella mia baracca. Lo lasciai con
la promessa di tornare a fare quattro chiacchiere sul movimento partigiano. Volevo sapere
cosa era accaduto a mia sorella, che sapevo che era stata prelevata dicendo ai miei che
l'avrebbero portata in montagna con me. Questo era quello che mi premeva di sapere.
Anch'io, come gli altri, avevo preso la dissenteria: ogni dieci minuti correvo in bagno a
fare la fila come tutti. Chi non riusciva a trattenersi se la faceva addosso, anche
perché eravamo ormai senza forze. Il bagno era composto da una botte di legno tagliata a
metà, con un'asse di legno come sedile. All'interno della botte non c'era solo lo sterco,
ma anche cadaveri che galleggiavano in mezzo a questo liquido verdastro. Questi, mentre si
sedevano per fare i bisogni, perdevano i sensi e cadevano dentro senza più uscirvi. Noi
non avevamo la forza per aiutarli e ormai non ci facevamo più caso. Sapevamo che avrebbe
potuto toccare anche a noi. Non eravamo più umani, camminavamo sopra e in mezzo ai
cadaveri come se questi non esistessero.
Un giorno andai a trovare il mio paesano e lo trovai molto giù, come se fosse alla fine.
Gli feci qualche domanda su mia sorella, ma questi mi disse che non sapeva niente. Si
leggeva nei suoi occhi che mentiva anche perché cercava sempre di cambiare argomento. Me
ne andai pieno di rabbia per non essere stato capace di farmi dire la verità. L'indomani
ritornai a trovarlo ma lui non c'era più. Chiesi dove fosse andato e mi risposero che era
morto e che se volevo potevo vederlo in fondo alla baracca, a fianco del gabinetto, nel
mucchio assieme agli altri. Non ci andai, ritornai a letto perché tremavo dal freddo e la
dissenteria mi aveva ridotto ad uno scheletro come gli altri.
Chi aveva la dissenteria non riusciva a campare più di cinque giorni, perché la
dissenteria ti scioglieva come la fiamma la candela. Vidi poi un deportato che masticava
un pezzo di carbone di legno, non sapevo dove l'avesse preso. Questo deportato era
straniero. Gli chiesi perché masticasse sempre il carbone e mi disse che, secondo lui,
serviva a fermare la dissenteria. Chiesi se ne dava un pezzo anche a me, pensando che si
rifiutasse. Invece me lo diede ed iniziai a masticare. I denti scricchiolavano e ogni
giorno che passava cercavo di procurarmi un pezzo di carbone. Devo dire che il deportato
aveva ragione: la dissenteria si calmò e anche la ferita ormai si era rimarginata. Pochi
giorni dopo, però, un altro ascesso mi uscì sull'altra gamba. Mi portarono in infermeria
e mi fecero lo stesso trattamento. Ero talmente debole che svenni. Fui risvegliato a suon
di schiaffi e facevo fatica a stare in piedi e camminare. Trascinavo i piedi senza piegare
le ginocchia. Non vedevo l'ora di finirla, prima lottavo per sopravvivere mentre ora avevo
perso la speranza di farcela. Più di una volta invidiavo quelli che non si risvegliavano,
sentivo di giorno in giorno le forze calarmi. La fame era molta e con un mestolo al giorno
di minestra non ci si riempiva lo stomaco. Che fine aveva fatto la razione di pane che ci
davano quando si lavorava? Di giorno e di notte pensavo a quei bei minestroni densi che
faceva la mia mamma, a quella bella polenta fumante che metteva al centro del tavolo. E a
tutto il resto! Io andavo sempre a togliere la crosta della polenta dal paiolo. Mi piaceva
molto e si faceva una volta a testa. Ma tutto questo non bastava a calmare la fame tanto
che di giorno giravo attorno alle baracche per cercare dei fili d'erba. Oppure, scavavo
alla ricerca di quelle patate che alcune piante sviluppavano sotto terra, munito del
manico del cucchiaio. Bisognava farsi largo e pulire le foglie dagli sputi con le mani.
Una notte mi sentii male. Tremavo dal freddo e avevo la febbre molto alta e al mattino
seguente mi venne una tosse insistente. Non sapendo dove sputare, strappai un angolo della
coperta (non occorreva molta forza, anche lei era marcia) e sputai in quel lembo. Vidi che
espettoravo del sangue ma non mi allarmai perché molti si trovavano nelle mie stesse
condizioni. Pensai che fosse una bronchite, avevo preso del freddo essendo senza
indumenti. In quel momento passò un medico che teneva in mano una grossa siringa, con uno
strano ago lungo. Lo fermai e gli feci vedere il lembo della coperta pieno di sangue.
Questi si sedette sul mio letto e mi visitò. La diagnosi era una broncopolmonite doppia.
Avevo più di quaranta di febbre. Mi guardò scuotendo la testa e mi disse queste testuali
parole in italiano, perché lui era veramente un medico italiano. Mi fece vedere quella
siringa piena di liquido con quello strano ago e mi disse di non far parola con altri
medici di ciò che avevo visto e di rivolgermi solo a lui. Gli domandai il motivo di ciò.
Mi rispose "Lo vedrai con i tuoi occhi".
Di fianco al mio letto c'era un russo preso prigioniero al fronte. Mi aveva detto che
lavorava alla cava di granito la quale, vista la sua triste fama, era chiamata "scala
della morte". Quel nome lo aveva perché, dopo che i prigionieri avevano preparato
vari massi (che pesavano dai quaranta ai cinquanta chili) li dovevano portare su questa
scala un pezzo ciascuno. Dopo una giornata di massacrante lavoro, chi aveva la forza di
salire su quella scala? Li mettevano in fila per quattro o cinque, ai piedi degli zoccoli.
Gli scalini erano stretti e traballanti. Se uno di questi disgraziati perdeva
l'equilibrio, oppure si piegava perché non ce la faceva più, cadeva trascinando tutti
gli altri dietro di lui. Così succedeva il massacro, poi i Tedeschi completavano l'opera.
Questo russo, molto giovane, aveva un buco nel ventre dal quale usciva continuamente del
liquido. Vidi il dottore iniettargli il liquido della siringa, poi vidi quel poveretto che
rovesciava gli occhi e dalla bocca gli usciva della bava densa con delle bolle. Cercava
l'aria perché non riusciva più a respirare. Poco dopo finì di respirare
definitivamente. Il medico mi guardò con sguardo minaccioso e se ne andò. Io giravo
anche con la broncopolmonite in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti per calmare la
fame. Purtroppo fuori dalle baracche non c'era più un filo d'erba.
Una notte sentii del movimento. Mi alzai in silenzio, vidi un piccolo gruppo e lo seguii.
Vidi che questi, con il manico del cucchiaio, aprivano l'addome dei cadaveri e asportavano
il fegato. Dal ventre usciva un tanfo terribile. Poi prendevano un pezzo di fegato
ciascuno e, di nascosto sotto i letti a castello per non farsi vedere, senza tanto
pensare, divoravano tutto in fretta per poi tornare a letto. Fecero questo per diverse
notti, finché una mattina arrivarono nella baracca i soldati tedeschi con i mitra
spianati. Obbligarono tutti ad uscire, anche quelli che non ce la facevano. Io pensai:
"Ora ci ammazzano tutti".
Avevano invaso la baracca con urla e cattiveria. Rimanemmo fuori qualche ora, poi ci
fecero rientrare e rientrando consegnarono a tutti un cucchiaio di legno. La baracca era
tutta sottosopra, i materassi in terra. Rimettemmo a posto ognuno il suo. Ci accorgemmo
che i cucchiai di metallo non c'erano più. Ci chiedemmo il perché, forse qualcuno aveva
fatto la spia, oppure i Tedeschi se n'erano accorti da soli? Era impossibile perché i
cadaveri li trasportavano i prigionieri. Eravamo una decina in tutto a sapere, tutti gli
altri erano all'oscuro.
La notte si sentivano i cannoni sparare, il fronte era vicino ma per molti di noi era
lontano. Nell'ospedale fecero circolare una voce, che al centro del campo i Tedeschi
avevano allestito un ospedale per accogliere i più gravi, per curarli. Ma se non ci
davano neppure da mangiare! Il mattino dopo da tutte le cinque baracche furono
fatti uscire tutti gli ammalati. Alcuni ce la facevano ma molti non ne avevano la forza e
pregavano i compagni di aiutarli. Ci misero tutti in fila, eravamo degli scheletri (ci
mancava solo di chiudere gli occhi). Dovevamo passare davanti alla commissione che era
composta da un medico e da ufficiali tedeschi. Ogni baracca aveva la sua commissione.
La selezione incominciò. La fila di destra era destinata al campo e la sinistra a
rimanere, ma noi eravamo convinti che la fila di destra andava nel nuovo ospedale del
campo, e ci andavamo per essere curati e per stare meglio. Quando vidi che il medico era
l'Italiano, ero sicuro che mi avrebbe messo nella fila di destra. Invece mi spedì in
quella di sinistra e dalla rabbia mi venne da piangere, anche se non mi rimanevano più
nemmeno le lacrime. Terminate le selezioni ci fecero rientrare nelle baracche, mentre gli
altri li portarono su al campo, che distava un centinaio di metri. Verso sera rientrò uno
di quelli che era stato selezionato per il campo e ci raccontò tutto quello che era
successo. Mentre raccontava tremava tutto: ci disse che il gruppo di destra, circa duemila
detenuti che avevano lasciato l'ospedale, erano andati tutti alla camera a gas. Non so
come, lui solo riuscì a salvarsi.
Mi tornò in mente il dottore, mi aveva salvato la vita. Lui sapeva cosa mi aspettava e mi
aveva salvato la vita. Cercò di salvarne il più possibile, senza insospettire i
Tedeschi. I Tedeschi ne pensavano sempre delle nuove, avevano la collaborazione dei kapò
e di qualche deportato (questi erano i maggiori criminali). Sentivo che non ce la facevo
più, mi sporcavo addosso senza accorgermene, non avevo la forza di trattenermi. Si
camminava ormai nello sterco dentro la baracca. Ogni tanto andavo a fare qualche
chiacchiera con un francese che accanto al suo letto aveva un bel mucchio di cadaveri in
attesa di essere portati via. Ma prima di portarli via, ad ognuno aprivano la bocca e con
uno strano attrezzo guardavano se c'erano denti in metalli preziosi. A quelli che li
avevano venivano strappati con una pinza e messi in una cassetta metallica. Per tutto il
giorno portavano via cadaveri, non si contavano più e non li portavano molto lontano ma
li ammucchiavano fuori dalle baracche, perché non sapevano più dove metterli. Ogni
giorno, poi, li irroravano con un liquido usando le pompe che i nostri contadini usavano
per irrorare le viti con il solfato di rame.
Una mattina entrarono un Tedesco ed un kapò gridando che l'indomani ai Francesi sarebbe
stato consegnato un pacco della Croce Rossa: li avrebbero chiamati non per nome, ma per
numero e senza numero niente pacco. Andai subito dal Francese dicendogli la bella notizia,
ma questi non aveva neanche il fiato per rispondermi. L'indomani tornai a trovarlo, aveva
la bava alla bocca e gli occhi spalancati, non dava più segni di vita. Mi guardai intorno
e, senza pensarci gli sfilai dal polso la sua targhetta con il numero e la infilai al mio.
Tornai a letto aspettando la distribuzione dei pacchi. Quando avvenne la distribuzione,
aspettai che chiamassero il mio numero. Quando lo chiamarono, andai a ritirare il pacco e,
arrivato alla mia branda, lo aprii subito. Centinaia di occhi erano puntati su di me.
Dentro il pacco c'erano due scatolette di carne, gallette e sigarette. Per prima cosa,
mangiai le due scatolette di carne, il resto lo tenevo sempre stretto. Quel giorno però
fu terribile perché, finito di mangiare, mi venne un terribile mal di stomaco e di pancia
che mi rotolavo per terra dai forti dolori. In più dovevo fare attenzione che non mi
derubassero di quello che mi era rimasto (le sigarette le avevo distribuite). Il mattino
seguente, il kapò ed un Tedesco entrarono nella baracca facendo un sacco di confusione.
Dicevano che era stato ritirato un pacco da uno che non era francese e che il responsabile
era pregato di riconsegnarlo. Poi iniziarono a passare in mezzo ai letti a castello ed io,
vedendomi in pericolo, mi nascosi sotto i letti, rimanendovi fino quando mi resi conto che
il pericolo era passato.
Sapevo che con quel gesto avevo rischiato di morire impiccato oppure con il colpo alla
nuca o ancora di venire trasportato legato in piedi sopra ad un carretto tirato dai
deportati, accompagnato da un complesso che suonava. Sapevo che dentro al campo vigeva una
legge che non perdonava chi rubava, truffava o tentava la fuga, e che veniva punito con
quel sistema. Ma nel caos del momento, visto che il fronte era sempre più vicino,
lasciarono passare. Dopo due giorni radunarono tutti i francesi e questa volta non mi
presentai anche se avevo al polso il numero francese. Fuori c'erano due automezzi con i
contrassegni della Croce Rossa. Consegnarono a ciascuno un pacco, li fecero salire sui
camion e quando furono pieni la distribuzione finì ed i mezzi partirono. La voce che
circolava al campo era che questi venivano trasportati nei sanatori in Svizzera. Ma
perché, pensai, perché distribuivano i pacchi, li ricoveravano in Svizzera? Perché solo
i francesi e noi niente? Il viavai durò alcuni giorni finché non ci furono più
francesi. Io ne conoscevo qualcuno perché abitavano nello stesso paese dove eravamo
emigrati. C'eravamo promessi che, se fossimo sopravvissuti, ci saremmo fatti vivi per
posta. Ma io sentivo che non ce l'avrei fatta. La mattina che non dimenticherò mai fu
l'arrivo di due carri armati Americani con una squadra di uomini. Dei Tedeschi non c'era
più l'ombra, dove erano finiti? Io guardavo dalla finestra e vedevo gli americani fermi
alla porta d'ingresso. Cercai di andarci incontro ma caddi. Non avevo la forza di alzarmi
e attesi fino a quando qualcuno non mi aiutò. Ritornai nella branda, non sapevo quello
che accadeva fuori. Gli altri mi dicevano che gli americani si erano ritirati e che
eravamo liberi, ma che nessun prigioniero doveva uscire dal campo per paura delle
rappresaglie verso gli austriaci.
Prima di lasciare il campo armarono alcuni prigionieri e li misero di guardia al posto dei
Tedeschi. I portoni si chiusero ed iniziò la razzia ai magazzini tedeschi, ma ci fu una
grande delusione perché questi erano completamente vuoti. Eravamo rimasti soli e senza
niente da mangiare. Questa situazione durò per cinque giorni, fino a quando vedemmo
entrare il grosso dell'Armata americana. Durante quei cinque giorni ci fu una moria
maggiore di quando eravamo prigionieri dei Tedeschi. Quando arrivò il contingente
alleato, per prima cosa prese tutti gli ammalati gravi e li ricoverò nell'ospedale
militare. Nell'ospedale c'erano delle tende molto grandi con il pavimento a parquet. In
fondo c'era l'infermeria. Io, assieme ad altri che si trovavano nelle mie stesse
condizioni, venimmo caricati su delle lettighe e ricoverati. Il nostro letto era una
lettiga. Eravamo circa una quarantina e ci davano da mangiare con il contagocce, per
evitare di causarci dei danni: alcuni sono morti rischiando a mangiare di più. Avevo
ancora la febbre e poco appetito. Una mattina mi caricarono sopra un'autoambulanza guidata
da un soldato di colore. Mi portarono in un altro ospedale, molto attrezzato, e mi fecero
delle radiografie. Non sapevo nemmeno cosa fossero, era la prima volta. Mi fecero
aspettare per l'esito. Quando questo arrivò mi misero al collo una busta con su scritto
il mio nome, cognome e nazionalità. Sotto c'era scritto "TBC attivo bilaterale. Non
sapevo cosa fosse la TBC, tornai in infermeria. Gli assistenti medici lessero l'esito ma
parlavano in americano, per cui non capivo niente di quelle che dicevano. Non riuscivo
nemmeno a capire perché questi avessero una specie di maschera che copriva il naso e la
bocca. Vicino a me c'era un piemontese, era tutto gonfio e stava male. Gli chiesi se
sapesse il significato della scritta che portavo al collo e questo mi rispose "Sei
ammalato di tisi, sei tubercoloso". Rimasi senza fiato, come se avessi ricevuto un
pugno allo stomaco, in quel momento avrei preferito essere morto. Io, che da bambino avevo
il terrore di questa malattia, in Francia, per non passare vicino alla casa di un nostro
vicino ammalato di TBC, cambiavo strada oppure mi mettevo davanti alla bocca un
fazzoletto, tanto mi avevano terrorizzato.
Ora non me la sentivo di ritornare a casa, avevo paura di non essere accettato, anche per
l'ignoranza dei paesani. Vedendomi con le lacrime agli occhi, il piemontese mi disse:
"Sai, ora questa malattia si può curare con delle iniezioni di calcio". Le sue
parole mi tranquillizzarono, riuscì a convincermi e mi calmai. Lui invece stava sempre
peggio, mi raccontava che era stato fatto prigioniero dai Tedeschi in montagna e che era
in possesso di documenti che solo lui sapevano dove si trovavano. Erano documenti della
famiglia reale ed erano nascosti in montagna. Io lo ascoltavo ma senza crederci. Quel
ragazzo era molto intelligente, si vedeva che aveva studiato ed aveva una certa cultura
oltre a parlare molto bene l'americano. Un giorno il suo stato di salute peggiorò.
Chiamò l'ufficiale medico pregandolo di salvarlo poiché era in possesso di quei
documenti. Arrivarono altri ufficiali, parlarono con lui chiedendogli dove si trovassero i
documenti della casa reale. "Salvatemi", rispose, "e io ve lo dirò".
Terminato il colloquio, arrivò un'équipe medica con dei flaconi di plasma. Ne
applicavano uno dietro l'altro ed era sempre sotto osservazione. Ma fu tutto inutile,
morì senza parlare. Non so che malattia avesse, vedevo che si gonfiava sempre di più.
Gli infermieri mi davano delle pastiglie e alla sera mi facevano un'iniezione di morfina
al braccio poiché non avevo più sedere. Dopo pochi giorni mi venne un ascesso al
braccio, mi volevano operare ma io non volevo. Soffrivo ma non cedevo perché avevo
sofferto troppo con i Tedeschi.
Dopo quaranta giorni ci spostarono nelle baracche che a suo tempo erano state occupate
dalle truppe tedesche. C'erano le brande con dei materassi soffici ed anche i cuscini. Per
curiosità scucii il materasso e vidi delle trecce di capelli.
Eravamo isolati dal resto del campo. La nostra zona era infetta e non potevamo avere
contatti con gli altri deportati. Nella nostra zona lavoravano giorno e notte per
realizzare delle fosse grandi e profonde, che servivano a seppellire i cadaveri per
evitare epidemie (alcuni erano in decomposizione). Gli scavi continuarono per due mesi.
Ogni giorno che passava cercavo di rafforzare le gambe, me le trascinavo dietro ma mi
sforzavo poiché non vedevo l'ora di essere rimpatriato, ma mi ero illuso. Venne una
commissione dal Vaticano e si accordarono perché i primi ad essere rimpatriati fossero
gli ammalati. Ma i giorni passavano e non si vedeva niente. Un pomeriggio mi alzai e mi
allontanai per un centinaio di metri. Per me era una grande conquista. Fiancheggiai la
muraglia e al termine di essa vidi una garitta con dentro dei soldati alleati che
controllavano che nessuno oltrepassasse il filo spinato. Il filo era stato sistemato lì
dai Tedeschi, era composto da rotoli la cui larghezza era circa di tre o quattro metri.
Mentre continuavo a trascinarmi dietro le gambe sotto lo sguardo dei soldati, mi sentii
chiamare da quelli che si trovavano al di là del filo spinato: uno di loro si rivolse a
me col mio nome da battaglia, e guardandomi mi chiese come mi fossi ridotto. Io pensai
"Come avrà fatto a riconoscermi, dato che nemmeno io mi riconosco se mi vedo nello
specchio?" Mi domandò anche come mai mi trovassi separato dagli altri, ma io non gli
dissi il motivo, non gli dissi che mi trovavo in una zona infetta, e che non volevano che
avessimo contatti con quelli oltre il filo spinato.
Mi disse che l'indomani mattina sarebbero rientrati in Italia, ma io gli risposi che non
poteva essere, poiché era stato promesso a noi ammalati che saremmo stati i primi ad
essere rimpatriati. Mi disse "Questa sera alle sette ci sarà il cambio della
guardia, e il posto resterà incustodito. Noi ci facciamo trovare qui e ti apriamo un
passaggio in mezzo al filo spinato." Così, prima delle sette, lasciai la branda, mi
misi in tasca un po' di pane e presi una coperta. Facevo molta fatica a portarmela dietro,
ma strinsi i denti e arrivai sul posto: le guardie vigilavano ancora. Di lì a poco,
lasciarono il posto incustodito. Vidi che i miei amici, aiutandosi con assi di legno, mi
stavano aprendo un varco in mezzo al filo spinato. Ci passai a fatica, rendendomi conto
che senza di loro non ci sarei mai riuscito.
Avevano paura del ritorno delle guardie, così fecero sparire le assi di legno e mi fecero
entrare dentro a una baracca stracolma di prigionieri, al cui interno si trovava anche una
commissione. Tutti quanti avevano in mano un lasciapassare per il rimpatrio e davanti a me
c'erano quattro deportati che stavano litigando, perché era rimasto un solo
"Ausweis" e noi eravamo in cinque. Io ero un intruso, e sapevo di non avere
alcun diritto. Un uomo della commissione diede a ciascuno un pezzo di carta e una matita,
dicendoci di scrivere la data dell'arrivo al campo e il numero di matricola. Poi raccolse
tutto, controllò le date: la fortuna volle che io fossi quello che era arrivato prima di
tutti gli altri, così l'Ausweis venne consegnato a me. Quella notte non riuscii a
dormire, e al mattino arrivarono alcuni camion guidati da prigionieri tedeschi che mi
aiutarono a salire. Quando fummo tutti a bordo e mentre ci allontanavamo, guardammo per
l'ultima volta i nostri sfortunati compagni che erano stati sepolti e che ancora venivano
seppelliti. Tutti quanti avevamo gli occhi umidi. A terra era rimasta una ragazza che non
aveva voluto rimpatriare per troppa vergogna: per salvarsi la vita, aveva avuto un figlio
da un SS tedesco. Nella sua sfortuna, fu anche fortunata, perché tutte le donne incinte
venivano passate alla camera a gas, lei non partì con noi.
I camion attraversarono la periferia di Linz: potevamo intravedere dietro alle finestre
delle case la gente che ci salutava agitando bandierine. Pensai che era la stessa gente
che pochi mesi prima ci aveva sputato addosso e che ci aveva maltrattato al nostro
passaggio. Arrivati alla stazione di Linz, trovammo ad attenderci un treno merci, forse
erano addirittura gli stessi vagoni dell'arrivo, ma senza filo spinato ai finestrini. I
carri non vennero sigillati né chiusi, ma restarono aperti e su ognuno c'era un soldato
americano armato di un fucile. Guardai la stazione, quella stessa stazione dove tanti
erano morti sulle rotaie, tanti compagni sepolti vivi. Nel nostro vagone si trovavano
anche deportati militari e civili, che però non erano ridotti come noi che venivamo dai
campi di sterminio. Il treno ripartì, e attraversammo boschi, campagne verdi, campi ben
curati: mi sembrava un sogno, e il mio pensiero corse a casa mia, a come mi avrebbero
accolto i miei familiari. Verso mezzogiorno ci fermammo in mezzo alla campagna. Si vedeva
qualche casa di contadini, e davanti a noi si stendeva un campo di patate che avevano
cominciato da poco a germogliare. Alla partenza ci avevano dato una scatoletta di fagioli
e qualche galletta, ma non ne potevamo più di fagioli. Così, tutti quelli che si
sentivano abbastanza in forze scesero giù dai vagoni e cominciarono a scavare nel campo
cercando qualcosa da mangiare. Ci videro alcune ragazze che andarono subito a chiamare
rinforzi e di lì a poco si presentarono molte persone, per lo più anziani, armati di
attrezzi agricoli come falci e forche, che cominciarono a gridare concitatamente. I
soldati americani circondarono il treno e spararono in aria, obbligando tutti a risalire
sui vagoni. Fu allora che nel mio vagone accadde qualcosa che non mi aspettavo: erano
saliti alcuni ragazzi austriaci ai quali inizialmente nessuno aveva fatto caso.
Improvvisamente, cominciarono a sputarci addosso e ad insultarci, e a chiamarci traditori.
Quella fu la molla che scatenò il putiferio: tutto il vagone si scagliò sui ragazzi, ma
intervennero immediatamente i soldati che a stento riuscirono a sottrarli a
quell'esplosione di rabbia e diedero ordine ai macchinisti di far muovere il treno, che
partì quasi immediatamente. Ci accorgemmo così che quei giovani erano usciti da un
vagone letto fermo su un binario morto: lì dentro ci aveva abitato qualcuno,
probabilmente famiglie che avevano avuto la casa distrutta dai bombardamenti.
Verso sera arrivammo in un paese, e lì il treno si fermò. Fummo condotti in un campo di
concentramento vuoto, e io andai subito a cercare una branda per riposarmi. Il cibo non mi
interessava molto, avevo sempre la febbre e dalle ferite che avevo sulle braccia
usciva un liquido purulento. Cercavo di pulirmi con quello che trovavo e avevo sempre
paura che gli altri se ne accorgessero: avevo paura di essere operato. Mi ero appena
sdraiato quando i miei amici mi vennero a chiamare, dicendomi di andare a vedere chi ci
fosse là fuori.
"C'è il kapò di Gusen" dicevano " quello che ti ha rotto la schiena a
suon di botte, lo stanno picchiando!" Mi feci aiutare ad alzarmi, e insieme con loro
mi incamminai verso la folla che lo aveva circondato.
Quando arrivai era troppo tardi: il kapò era già morto sotto i colpi degli zoccoli.
Accanto a lui c'erano due valigie con indumenti, oggetti d'oro e protesi dentarie.
Così tornai alla branda, e più tardi qualcuno mi portò un piatto di minestra. Pensai
"Finalmente un piatto italiano", ma quando misi in bocca la prima cucchiaiata mi
venne da vomitare: l'avevano zuccherata, ed era immangiabile.
Al mattino dentro la baracca arrivò un'équipe medica, e ci fecero passare tutti di lì.
Con una pompa, ci spruzzarono addosso una polvere bianca che a sentire loro doveva servire
per disinfettarci. Non ci fecero spogliare, ma ci infilarono un tubo attraverso le fessure
dei vestiti. Io indossavo ancora la divisa da internato. Una volta terminate queste
operazioni, ci fecero risalire sui vagoni e partimmo. Quando arrivammo al confine
italiano, il treno rallentò e sembrò che si volesse addirittura fermare; molti scesero
dai vagoni con le lacrime agli occhi e s'inginocchiarono a baciare la terra che non
speravano più di rivedere. Percorremmo ancora qualche chilometro e arrivammo a Merano:
c'era tanta gente ad aspettarci, per chiederci da che campo venissimo, e per mostrarci le
fotografie dei lori cari, con la speranza che li avessimo visti. I soldati ci fecero
salire su alcuni camion e ci portarono ad un centro di raccolta. Là ci fecero scendere e
ci ordinarono di metterci in fila. Consegnarono ad ognuno di noi dei vestiti, ma quando
arrivò il mio turno i vestiti erano finiti, così mi accontentai di una camicia. Era
ormai sera quando mi dissero che tutti i malati dovevano presentarsi in infermeria; io,
che avevo nascosto la busta che portavo al collo e nella quale c'era scritta la mia
diagnosi, mi appartai in un angolo perché non mi sentivo molto bene. Passò di lì una
crocerossina che con gentilezza e molta pazienza, mi convinse a seguirla in infermeria.
Mi visitarono, mi misurarono la febbre che ormai non mi abbandonava più, e tirai fuori la
busta che avevo nascosto. La lessero, e mi portarono in un letto, un vero letto con
lenzuola bianche: mi sembrava un sogno. Mi diedero qualcosa di caldo da mettere nello
stomaco, mi fecero una puntura di morfina e mi addormentai.
Il mattino seguente mi svegliai sentendo una voce che diceva "Quelli di Udine si
preparino, fuori ci sono dei pullman che aspettano". Mi vestii velocemente e,
accompagnato dalla crocerossina, salii sul pullman col cuore che mi batteva forte. Non
sentivo più nemmeno il dolore alle braccia, tanto era forte il pensiero di casa mia.
I pullman partirono, fermandosi ogni tanto e facendoci scendere in punti precisi dove
erano stati organizzati dei posti di ristoro. In uno di questi punti mangiai di gusto un
piatto di minestrone che mi ricordò quello che faceva mia madre, mentre durante le altre
fermate scesi per pulirmi e per andare al bagno. Non reggevo il pullman, e ogni volta che
mangiavo qualcosa mi vomitavo addosso. Così, mentre gli altri si rifocillavano, io dicevo
che non avevo fame anche se il mio stomaco diceva il contrario. Ad ogni fermata c'era
gente che veniva a mostrarci fotografie di parenti.
Verso sera arrivammo a Pordenone, e anche lì io non scesi. Salì una crocerossina, mi
diede un'occhiata e vedendo che dalle braccia mi colava il pus, mi pregò di seguirla. Io
lo feci volentieri: era una bella ragazza, e mi pulì, mi curò e mi fece delle
fasciature. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii trattato da essere umano.
Arrivati a Udine, noi ammalati venimmo ricoverati, non in un Ospedale ma in una scuola.
Appena entrati ci vennero incontro una suora e un medico, il dottor Bellis, un uomo alto e
con i baffi. Ci chiesero se eravamo stati disinfettati e rispondemmo di sì. Uno alla
volta, poi, dichiarammo le nostre generalità. Io pregai il dottore di non avvisare la mia
famiglia, o perlomeno di farlo il più tardi possibile, perché non volevo che mi
vedessero in quelle condizioni. Ci assegnarono poi dei letti, ma quella notte dormii poco,
a causa del continuo viavai degli infermieri che venivano chiamati dagli ammalati: c'era
chi tossiva e sembrava soffocarsi con il suo stesso catarro, e chi aveva l'emotisi.
Eravamo quasi tutti all'ultimo stadio della malattia, e alcuni di noi erano rientrati solo
per morire nel proprio paese.
Il dottore mi aveva messo sopra al letto una zanzariera, per evitare che le mosse si
posassero sopra le mie ferite. Dopo otto giorni cominciai a sentirmi un po'' meglio. Una
mattina mi sentii scuotere, aprii gli occhi e sopra di me vidi un infermiere che mi stava
dicendo che c'era un signore insieme al dottore, che parlavano di me, che il medico gli
stava dicendo che ero suo figlio ma lui non voleva crederci. Il medico mostrò la cartella
clinica a mio padre, e su quella c'era scritto il mio nome, Cosmar Franco. Mio padre tirò
fuori dalla tasca una lettera della Croce Rossa, nella quale gli si diceva che suo figlio
era morto nel campo di Mauthausen. Mi domandai "Sono così malridotto che mio padre
non mi riconosce più?"
Pesavo ventinove chili, ero ridotto pelle e ossa, ma mi alzai e tirai da parte la
zanzariera. Li sentivo parlare nel corridoio e mi affacciai alla porta, vedendo mio padre,
di schiena, mentre parlava col medico. Presi un po' di fiato e lo chiamai, mio padre si
voltò e rimase a guardarmi senza dire una parola. Dopo qualche attimo disse solo
"Sei tu? Sei proprio tu?". Io non seppi mai quello che aveva provato in quel
momento, di certo doveva aver avuto un cuore molto forte per resistere ad un'emozione di
quel genere.
Da quel giorno, vennero a trovarmi due o tre volte al giorno, portandomi da mangiare anche
se non ne avevo alcun bisogno, perché all'ospedale non mi facevano mancare niente. Veniva
anche qualche paesano a farmi visita, preso dalla curiosità. Un giorno spiegai a mio
padre come mai avesse ricevuto l'avviso della mia morte, e gli raccontai dello scambio
della mia piastrina numero 126691 con quella di un francese che era in coma e stava
morendo. Era accaduto una mattina in cui sarebbe dovuto andare a ritirare il pacco della
C.R.I., io sapevo che rischiavo la morte, ma in quel momento non ci avevo pensato. Quando
avevano chiamato il suo numero, mi ero presentato io, gli addetti mi avevano controllato e
poi mi avevano consegnato il pacco. Ecco perché, dopo la liberazione da parte degli
alleati, avevano trovato le targhe sui cadaveri: i Tedeschi non erano riusciti a bruciare
i morti e a metterli nelle fosse comuni, avevano avuto fretta di eliminarli.
Passarono alcuni mesi, e mio padre, vedendo che mi ero ripreso, chiese al medico quando mi
avrebbero mandato a casa, ma la risposta fu come un colpo di frusta. Il dottore gli disse
"Ma lei lo sa cos'ha suo figlio?" Mio padre disse che no, non lo sapeva, ma che
mi vedeva stare meglio, a parte la tosse.
"Lei deve ringraziare il Padre Eterno se suo figlio é tornato, é ammalato di
tubercolosi e nello stato in cui si trova andrà via di qui fra qualche anno, se tutto va
bene, non di certo fra qualche mese". Mio padre rimase muto.
Una mattina lo vidi molto triste: era andato a Cividale a fare una denuncia perché aveva
saputo da un bracconiere che mia sorella era stata uccisa dai partigiani del paese;
l'avevano fucilata nei prati di Ipplis.
Passarono i mesi, e i mesi diventarono anni: mi trovavo in sanatorio già da cinque anni.
Mi dimisero in maggio, dicendomi che ero clinicamente guarito, ma non era cosi. Dopo tre
mesi, venni ricoverato di nuovo per altri tre anni.
Girai parecchi sanatori dell'Italia settentrionale, entrando e uscendo più volte. Il
pellegrinaggio finì nel 1970, dopo aver subito vari interventi chirurgici. Devo
ringraziare il prof. Nobile di Gaiato, che mi consigliò di andare a Roma all'Ospedale
Forlanini, poiché solo lì erano in grado di risolvere i miei problemi polmonari, che
erano molto gravi, dato che avevo un'emorragia interna che nessuno riusciva a fermare.
Arrivai a Roma nell'agosto del 1969, ma la chirurgia era chiusa perché con il caldo non
operavano. Appena il medico vide le mie condizioni, mi inviò subito alla chirurgia, mi
fece fare molti esami preparatori e in settembre mi sottoposero al primo intervento di
decorticazione pleurica per fermare l'emorragia. Per un mese restai con i tubi di
drenaggio con aspirazione, per costringere il polmone ad espandersi. Ma non ci fu nulla da
fare, ebbi una complicazione a causa di un drenaggio che mi perforò lo stomaco e l'ernia
diaframmatica, ebbi un'altra emorragia. Al mio capezzale c'era mia moglie, che non mi
abbandonava mai. Si accorsero immediatamente dell'aggravarsi delle mie condizioni e del
fatto che avevo perso i sensi. Quando mi ripresi, avevo flebo dappertutto. Tutto il
reparto radiologico si mise a disposizione, e alla sera avvertirono l'équipe di chirurgia
di presentarsi per un intervento urgente. Dovetti aspettare fino alle sette del mattino
seguente, e uscii dalla sala operatoria nel pomeriggio. Per questi interventi é stato
fatto arrivare sangue da Bologna, e la fortuna ha voluto che mio cognato fosse un
donatore. Sono stati mobilitati anche donatori di Udine. Non ero in grado di contare
quanti flaconi mi hanno trasfuso, addirittura la polizia ferroviaria era stata incaricata,
alla fermata del treno, di cambiare i contenitori di ghiaccio nella borsa che conteneva i
flaconi. A Roma era impossibile trovare sangue anche al mercato nero, e non ci si poteva
fidare. Mia moglie rimase al mio capezzale per tre mesi. L'intervento che avevo subito non
dava alcuna certezza di sopravvivenza, e io stesso dopo una ventina di giorni pensai che
tutto fosse finito. I medici passavano ogni mattina a visitarmi dicendomi che stavo bene,
e con un bisturi mi tagliavano la carne bruciata dal bisturi elettrico. Io non sentivo
niente, per me quella parte era come morta, non si richiudeva. Passò poi il professor De
Paola, che fu per me come un inviato divino. Ci riferì che venivano praticati degli
interventi in fase sperimentale, ma solo lui riusciva a portarli a termine con successo.
In vari sanatori questi interventi venivano fatti, ma con mortalità molto alta.
Addirittura al Pizzardi di Bologna morivano nove pazienti su dieci, e mia moglie non volle
farmi operare. Arrivò subito un'altra mazzata: bisognava fare un altro intervento perché
il polmone non si espandeva e così era necessario fare una plastica di copertura. Non so
quante costole mi tagliarono, so solo che avevo dei dolori tremendi al torace ed ero
costretto a prendere continuamente calmanti. Rifiutai di prendere morfina perché non
volevo assuefarmi. Ci fu poi il problema della cicatrice che non si chiudeva, la carne era
talmente tirata che il taglio rimaneva aperto. I medici mi dissero di mettermi con la
schiena al sole e, piano piano, cominciai a migliorare. A Natale aiutai con grande fatica
a fare il presepe: non riuscivo ancora a muovere il braccio sinistro senza procurarmi
dolore alla ferita. Mi mandarono a casa in permesso, con l'impegno che sarei rientrato un
giorno prima della Befana. Superai la visita e i medici constatarono che tutto andava
bene. Mi chiesero se mi avrebbe fatto piacere essere dimesso, a me, che non vedevo l'ora.
Così, lasciai il sanatorio il 7 gennaio 1970, dopo venticinque anni di ricoveri
finalmente tornavo a casa, con la speranza di non avere più bisogno di ospedali.
Ma questo non fu l'unico problema che dovetti affrontare: nel 1950 ero tornato a casa, e
oltre alla tubercolosi che già avevo, mi venne anche l'epatite. L'ultima volta che vidi
mio padre stavo molto male, e dalla bocca mi usciva la bile; vedendomi in quelle
condizioni, mio padre era andato dal medico ad informarsi sul mio stato di salute: avevo
assunto un colorito verdastro, erano peggiorate anche le mie condizioni polmonari, ed il
medico disse a mio padre che non c'era più niente da fare. Mio padre morì all'ospedale
di Udine con un trauma cranico che si era procurato al lavoro, ma la mia ora non era
ancora suonata, così superai l'epatite. Mentre mi trovavo a casa in permesso venne a
trovarmi un ex-partigiano mio compaesano per chiedermi come stessi. Galdino Pontoni era
una persona per la quale provavo un'istintiva antipatia, e quando lo vidi, ebbi una
folgorazione improvvisa: mi alzai dal letto e presi da un cassetto del comodino un
trincetto che mio padre adoperava per aggiustare le scarpe. Lo minacciai puntandoglielo
con decisione allo stomaco, e lo colsi di sorpresa a tal punto che cominciò a chiedermi
che cosa avessi intenzione di fare. Gli chiesi di dirmi chi fosse stato ad uccidere mia
sorella. Lui mi rispose guardandomi negli occhi, con voce tremante, che quello che l'aveva
fatta uccidere era mio cognato Toni Dinoni. Non gli credetti, ma lui giurò che quella era
la verità, e lo lasciai andare.
Riflettei e feci indagini per conto mio ma, quando la storia venne a galla, mio cognato
morì. Nell'estate del 1943 mia sorella e la moglie di mio cognato se ne andarono in
Germania a lavorare, lasciando a mia madre i cinque figli di Toni. Lui allora era
nell'arma dei Carabinieri. I bambini furono messi in collegio, e l'anno dopo, quando io
ero già in montagna con i partigiani, mia sorella ritornò a casa dalla Germania. I miei
genitori mi raccontarono che mia sorella era arrivata da poche ore, quando due compaesani
la vennero a prendere obbligandola a seguirli. Mio padre si oppose e chiese loro dove la
stessero portando. Gli risposero "In montagna, da suo fratello", così mio padre
li lasciò fare. Da quel giorno nessuno seppe più nulla di lei fino a quando il
bracconiere raccontò tutto a mio padre, raccomandandogli di non parlarne con nessuno
perché aveva paura di una vendetta. Nessuno in paese poteva sapere che mia sorella fosse
tornata, solo mio cognato, dato che abitava di fianco a noi. Così, mise in atto il suo
piano per vendicarsi.
Ma chi erano quelli che si facevano chiamare partigiani subito dopo la liberazione? Da
quello che ho capito, erano solo una banda di criminali, senza controllo. Non potevano
essere altro, a giudicare da quello che avevano fatto nel mio paese, e per coprire
l'omicidio si erano proclamati partigiani. Sono questi e i gruppi come questi che si sono
fatti odiare dai friulani, mentre i veri combattenti morivano sui monti soffrendo il
freddo e la fame, per non parlare di quelli che sono morti nei campi di sterminio, cadendo
per una causa giusta e per un giusto ideale.
Molti di questi combattenti, una volta finita la guerra, non riuscivano a trovare
un'occupazione perché venivano bollati come comunisti, e a quell'epoca c'era un papa
fascista che aveva scomunicato i comunisti.
Tra i partigiani di comunisti ce n'erano pochissimi, nel mio battaglione erano solo
quattro; anche i preti che combattevano con noi erano comunisti, e molti ne sono morti nei
campi di concentramento.
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