Non
solo erano in tanti a sapere quando lo sterminio era in atto, ma erano tanti
anche coloro che, già a partire dal 1940, sapevano quello che sarebbe poi
avvenuto. Nel libro pubblicato dalla Camera dei Deputati “Le leggi razziali e
la persecuzione degli ebrei” che il presidente Violante volle che fosse
distribuito a tutti i parlamentari quando era in discussione in Parlamento il
progetto di legge per l’istituzione del giorno della memoria, è riportata una
vignetta pubblicata sul periodico dei giovani fascisti intitolato “libro
e moschetto” che è sintomatica e che, per il suo contenuto, è agghiacciante.
Raffigura un barattolo di vetro con immerso nell’alcool lo stereotipo
dell’ebreo; sull’etichetta c’è la scritta “Fetus Judeum. Facsimile di
una brutta razza vissuta fino al 1940 sterminata poi da uomini di grande genio".
E poi la didascalia: “ecco come ci
ricorderemo degli ebrei nel 2000.”
E
poiché nessuno poteva immaginare
l’inimmaginabile, ritengo che nell’ambiente dove la vignetta è nata fossero
già a conoscenza del programma di sterminio che sarebbe stato poi attuato. Una
vignetta del genere avrebbe dovuto scatenare l’indignazione di gran parte
della popolazione e principalmente
delle autorità religiose. Invece niente, solo indifferenza.
Come
vittima della Shoà certamente il mio giudizio non può essere distaccato. Ha
detto Tullia Zevi, e io concordo pienamente con lei,: “Il passato va giudicato
senza spirito di vendetta, ma anche senza revisioni ingiustificate, senza
amnesie, senza assoluzioni gratuite, senza subdoli perdonismi.”
Non
mi meraviglia più di tanto che la Chiesa cattolica e per essa il pontefice Pio
XII non siano intervenuti per fermare il genocidio.
Io
sono stato arrestato il 7 aprile 1944, sabato e
prima sera della Pasqua ebraica. Il giorno successivo era il giorno di Pasqua,
la Pasqua cattolica. Il venerdì precedente, venerdì santo, in tutte le chiese
del mondo ancora una volta veniva lanciata la maledizione contro i “perfidi
giudei” “popolo deicida”, e tra i perfidi giudei c’ero anch’io come
c’era anche il piccolo senza nome, figlio di Marcella Perugia, nato il 17
ottobre 1943 nel collegio militare di Roma a due passi dalla Città del Vaticano
dove gli ebrei rastrellati nella grande razzia del ghetto di Roma erano stati
rinchiusi, che fu ucciso e dato alle fiamme il 23 ottobre successivo subito
all’arrivo ad Auschwitz.
E
che cos’è la maledizione se non invocare la punizione divina? Ecco allora che
per i cattolici credenti, poiché la preghiera non può ridursi ad un rituale
senza significato, la loro invocazione è stata esaudita.
Ci
sono voluti ancora tanti anni, il Papa buono Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano
II per togliere questa maledizione
dalla liturgia di Pasqua.
E’
certo che se l’80% degli ebrei italiani si è salvato è stato perché è
stato aiutato da non ebrei a sfuggire alla cattura e tra i salvatori
molti appartenevano al clero che avevano per iniziativa personale
anticipato la risoluzione del concilio vaticano II°. Sono quelle persone che
noi ebrei chiamiamo “Giusti”, “Giusti delle genti” perché, come
è detto nella tradizione ebraica, “chi salva una vita salva il mondo
intero”.
Vorrei
qui ricordare padre Massimiliano Kolbe che per altruismo ha trovato ad Auschwitz
la più terribile delle morti nel bunkerblock, il canile come veniva chiamato,
dove il prigioniero punito veniva rinchiuso senza acqua e senza cibo fino
alla morte.
Io
penso che se quel 16 ottobre 1943, quando
gli ebrei rastrellati nel ghetto di Roma erano ancora rinchiusi al collegio
militare. il Papa si fosse presentato davanti a quel cancello anche senza
pronunciare una parola, aprendo soltanto le braccia in segno di croce, come
aveva fatto il 19 luglio 1943 a San Lorenzo sulle macerie del primo
bombardamento di Roma, gesto che aveva anche il significato di un abbraccio, di
una partecipazione, ne sono convinto, almeno da Roma non ci sarebbe stata
deportazione.
Ne
è la riprova quanto accaduto a Sofia dove quando già erano pronti i carri
bestiame nella stazione e gli ebrei erano già stati rastrellati, ci fu
l’opposizione del Primate ortodosso e del vicepresidente del Parlamento
bulgaro Dimitar Pechev e di numerosi parlamentari che pure erano fascisti, che
pure erano riconoscenti verso il nazismo che aveva consegnato
la Macedonia alla Bulgaria che l’aveva sempre rivendicata. Malgrado
questo si opposero e tutti i 50.000 ebrei arrestati vennero rilasciati.
Altro
esempio è quello della Danimarca, dove
il Re Cristiano X protestò vigorosamente con i nazisti per l’imposizione
delle leggi anti-ebraiche e quando gli occupanti ordinarono
l’applicazione della stella gialla sugli abiti degli ebrei comunicò
loro che anche lui avrebbe applicato la stella gialla sui suoi abiti. E i
nazisti ritirarono l’ordinanza e dalla Danimarca non ci fu deportazione di
ebrei.
Da
questi due esempi si evince che se ci fosse stata una forte opposizione morale
da parte di coloro che avrebbero dovuto e potuto farlo il massacro si poteva
quantomeno ridurre.
Approfitto
dell’occasione che mi è stata offerta di parlare qui questa sera per
raccontare con estrema sintesi cos’era Auschwitz. Per noi pochi sopravvissuti
è un imperativo categorico testimoniare, parlare, gridare se necessario,
sempre, in qualsiasi occasione perché
la memoria non vada perduta. La memoria non è un patrimonio cristallizzato che
ha a che fare soltanto con il passato ma riguarda anche il presente ed è
proiettata nel futuro.
Auschwitz
era il luogo dell’orrore assoluto dove tutto era violenza, disperazione,
morte. Dove il fumo e le fiamme di quegli orrendi camini dei crematori si
alzavano alte, si scontravano e ricadevano in miriadi di scintille che si
spegnevano come tante stelle cadenti, ma
quelli erano i nostri morti.
Dove
il prigioniero veniva sradicato dal mondo e proiettato in un luogo
inimmaginabile, ostile e privato di ogni diritto. Non poteva avere una famiglia,
non poteva avere ricordi - anche il ricordo dei nostri cari mandati a morire era
affievolito dalla necessità per sopravvivere di pensare soltanto al presente -
e questo non ho potuto e non ho saputo mai perdonarmelo.
Il
prigioniero non poteva protestare, non aveva più un nome che era stato
sostituito da un numero tatuato sull’avambraccio sinistro. Alla conta
dell’appello i prigionieri venivano indicati come stùcke ovvero pezzi, non
come uomini o prigionieri, e così finiva
per perdere anche la propria umanità. Gli erano stati tolti anche i peli ed i
capelli. Non poteva avere speranza ed
infine gli veniva tolto anche il diritto di vivere.
E’
inutile raccontare il resto: la fame, la sete, il freddo, le percosse, le
sevizie e tutte le nefandezze del lager. Per rendere appieno la mia
testimonianza dovrei trovarmi nelle condizioni di allora. Come potrei ad esempio
raccontare la fame? quando una persona ha mangiato la fame la dimentica e così
per il resto.
Ecco,
questo è accaduto tra l’indifferenza del mondo che pure sapeva.
Ha
detto Hannà Arendt: per commettere i crimini più atroci non occorrono grandi
personalità assassine, basta un popolo che sta alla finestra, guarda e non
vede.